lunedì 31 ottobre 2016

Editoriale n. 9





Fortini: il congedo dell'ospite ingrato

Sul numero 8 de «la rosa necessaria» avevamo dedicato una lunga recensione all'ultimo, splendido libro di Franco Fortini (che era già un consapevole testamento umano e poetico). Nei giorni in cui la rivista usciva giungeva la notizia della sua morte, che, onore raro per un poeta, veniva data anche dai TG della Rai. Questo perché Fortini, è bene dirlo subito, è stato uno dei maggiori intellettuali del dopoguerra, la coscienza più lucida e severa di una certa sinistra, che ha avuto il suo momento di massima emersione negli anni Sessanta.
Fortini ci ha insegnato la fedeltà, prima di tutto. Già da ora possiamo promettere che torneremo sulla sua vasta e complessa opera. Poche cose qui vogliamo dire. Prima di tutto che egli ha rappresentato uno degli ultimi modelli di intellettuale "totale", rifiutando con la sua stessa pratica, la scissione dell'uomo in funzione tipica della società contemporanea. La sua meta utopica era 1' uomo integrale. Per questo ha tenuto sempre insieme la critica letteraria, l'analisi della società, la poesia. Molti hanno sottolineato una contraddizione tra il Fortini poeta e il polemista, religiosamente aperto all'utopia il primo, realista il secondo. Ma l'unità della sua opera e della sua vita è data dalla meta finale (ossimoricamente data per irraggiungibile ma pure assolutamente necessaria) sia della poesia che della pratica politica: la ricomposizione dell'uomo con l'uomo in un mondo liberato, che assumeva i contorni religiosi della "Gerusalemme celeste".
Presente nei maggiori snodi della cultura di sinistra del dopoguerra (da «II Politecnico» di Vittorini a «Officina» con Pasolini, fino ai «Quaderni Piacentini», con i giovani Bellocchio e Berardinelli), protagonista di alcune memorabili polemiche sul rapporto fra intellettuali e potere, sull'industria culturale, Fortini è stato sempre un marxista, convinto che la strada indicata da Marx e Bloch, Lukács e Adorno fosse l'unica realmente percorribile per arrivare ad un mondo più giusto e libero, ed è triste pensare che gli ultimi mesi della sua vita siano coincisi col punto più basso della parabola politica della nostra nazione («porca, porca, porca», per citare Saba). È per questa sua fedeltà, in un tempo di trasformismi (di cui anche noi che scriviamo siamo spesso protagonisti, senza accorgercene) che la cultura italiana non gli ha tributato quell'atteggiamento di rispetto ipocrita che si ha per tutti i morti. Fortini, come ha fatto per tutta la vita, ha continuato a suscitare violente prese di posizione, al punto che quel tal Vertone Saverio, esperto di "salto sul carro del vincitore di turno", lo ha definito un «ingegno luciferino». Questo è un punto di merito, e ci dà la certezza che la sua opera non potrà entrare in nessuna Pléiade perché continuerà ad esigere risposte hic et nunc. "La poesia non importa" e "non muta nulla", sembra dirci Fortini, è altrove ciò che conta, nell'organizzazione (che è sempre economica e politica) dei rapporti umani. Ci piace, allora concludere con le parole di uno dei suoi "discepoli", l'unico ci è parso, in grado di cogliere l'assoluta diversità dell'opera di Fortini da tanti, pur grandi, poeti del nostro Novecento:
«Sono convinto che il lascito di Fortini non sia quello di una parola da interpretare, ma quello di una parola da applicare. È un lascito che non chiede ammirazione o pietà, ma una scelta di campo: o torneremo a credere, come Fortni non ha mai smesso di credere, alla possibilità di un mutamento del presente in nome del futuro oppure l'opera, tutta l'opera di Fortini, dalle poesie ai saggi critici, dagli scritti polemici alle voci d'enciclopedia, è destinata a diventare un libro "ermetico", un libro di devozioni odi profezie.» (Giovanni Raboni, I versi di un ospite ingrato nel dramma delle idee, «Corriere della Sera», 29 novembre 1994)


Nicola Sguera

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