martedì 30 settembre 2014

1993. Un anno di rosa necessaria

La rosa necessaria nasce come associazione nel 1993. Quell'anno fu fitto di incontri.



Il 9 gennaio presso l'Auditorium del Museo del Sannio lesse i suoi versi Biancamaria Frabotta in una serata intitolata Appunti di volo.





Il 20 febbraio Horst Künkler presso l'Auditorium del Museo del Sannio analizzò due testi di Celan in un incontro dal titolo L'ermetismo nella parola lirica di Paul Celan.







Il 13 aprile il poeta Marco Guzzi intervenne a Benevento presso la Sala del Reduce in un incontro dal titolo Dalla frattura fonda.





Il 26 settembre l'associazione presentò nel Chiostro di San Francesco a Montesarchio una scelta di poesie e prose contro la guerra, dal titolo In ira contro siepi di spade cerco una piccola poesia (Poesia & Guerra) in collaborazione con l'Altritalia.







Il 20 novembre, in collaborazione con la Galleria Erreci invitammo il poeta Giuseppe Pittà per un incontro intitolato Giocare di vento.






lunedì 29 settembre 2014

Gianni D'Elia - Poesia come discorso vissuto






Gianni D'Elia 
POESIA COME DISCORSO VISSUTO

Ciò che mi interessa è il racconto del reale nelle sue occasioni vissute. Non mi interessa il mito come mitologia, non mi ritrovo nella poesia che traduce in versi i miti, nella poesia che pratica il sublime per il sublime.
La poesia non c'è perché c'è il poeta: questa è l'idea del neoclassicismo. La domanda per me riguarda più il mitopoietico, che è il contrario di mitologico. Mitopoietico è il ritrovamento di un senso implicito che si mostra nell'urto e nel contatto fra l'esistenza e l'esistente, cioè nell'arsione della realtà storica.
Penso ad una realtà in atto del mito come racconto che le cose ci fanno perché noi si possa chiamarle. Questo è per me il mito.
Forse la realtà è un mito; forse il mito della realtà è quell'altra parte della poesia italiana che ha attraversato il '904, così come c'è stato il mito della parola assoluta. Ed è la linea alternativa a quella ermetica, simbolistica, orfica. Ovvero la linea in cui troviamo insieme ad altri Umberto Saba, Sandro Penna, Giorgio Caproni, Pier Paolo Pasolini e Giovanni Giudici.
Penso ad un mito della realtà da riconoscere nel quotidiano. Li deve ritrovare lo scrittore i miti. Faccio un esempio: in Segreta c'è una poesia (E il ronzare del frigo, intermittente, tremìo) che parla del boiler, che noi abbiamo in tutte le case. Viene fuori un verso che parla di questa fiammella votiva. Tutte le case hanno qualcosa di votivo, non sapendolo. Il boiler è una delle cose più impoetizzabili, eppure è possibile rileggere e anche riconsacrare il quotidiano, con uno sguardo che è, naturalmente, un dono. E' quello sguardo che ti fa pensare ad altre zone del sociale o dell'intimo che potrebbero essere nominate di nuovo, che potrebbero essere fonte di mito, cioè, come in questo caso, di un riconoscimento di qualcosa che dura dai tempi dei Romani: dalla fiamma votiva al boiler.
C'è una battaglia da fare nella poesia italiana, perché noi tutti stiamo ancora dentro al tempo del simbolismo, dell'inconscio come linguaggio. Contro l'ontologia poetica del novecentismo, del misticismo letterario, dì ogni ermetismo basato sull'autonomia del poetico. Bisogna capire che la poesia non vive nella poesia e i libri non nascono dai libri, e che c'è una rapporto tra poesia e vita e tra l'arte e la storia. Se non sento questo in un oggetto, in una figura, in una persona, in una memoria cercando di chiamarlo non scrivo versi, perché penso che la poesia, nell'equilibrio espressivo ‑ che è anche un tentativo di equilibrio morale e psicologico ‑ sia il tentativo di controllare, attraverso uno stile aperto e sottoposto alla lingua, la realtà, accrescendo le facce dell'esperienza.
Semplificando, c'è stata una certa poesia novecentesca che ha detto che ciò che contava era lo stile, un'altra poesia che ha detto che invece ciò che contava era la lingua.
Una poetica dello stile è cosa opposta ad una poetica della lingua.
Io che ho amato molto Pasolini, il discorso di Officina, e il discorso critico di Angelo Romanò (da riscoprire) penso che esista una subordinazione dello stile alla lingua: quindi un pensiero che si faccia strada, una poesia legata all'argomentazione, alla riflessione, alla ricerca di un senso che non è predeterminato, un tentativo di stare dentro le cose e che magari aspiri a diventare concezione del mondo. Questo manca oggi alla poesia. Anche nei poeti bravi ciò che si sente è il "sentimento del tempo", in pochissimi una concezione del mondo. Non penso a qualcosa di astratto, ma ad una visione inverata in oggetti, in cose. L'impoetico della contemporaneità ‑ il seriale, il mercantile ‑ è il tavolo di confronto della lirica. Poeti come Gottfried Benn e Osip Mandel'stam hanno cercato di unire l'antico, il sempre presente e il nuovo.
Siamo di fronte alla svalutazione delle vite e in mezzo alla reificazione delle cose. In un mondo in cui la vita conta sempre meno, ma contano soprattutto le cose, la poesia cerca di ri‑parlare con le cose, riportandole ad un livello di valore, ma per ridare valore alle vite. Questo non può farlo solo la poesia: lo potrebbe fare una certa politica. Ma la poesia deve legarsi alle cose così intese, magari tra preghiera e invettiva (perché questo è oggi il nostro duplice moto e sentimento). Si possono riconsacrare momenti affettivi e anche irrazionali: c'è una dimensione implicitamente religiosa nel rapporto con le cose, dentro un'istanza che per me resta laica, non confessionale.
Mythos significa racconto. Noi viviamo in un tempo che simula la presenza. La poesia è il pensiero, il sentire della presenza. Purtroppo essa vive in uno statuto storico che attraverso i meccanismi della comunicazione simula la presenza. Inesorabilmente succede che non si vive un'autenticità solo perché si vive il momento lirico. Ma tu sai che stai elaborando un pensiero prima sconosciuto a cui ti porta il verso.
L'augurio è quello che tutti siamo diretti verso una concezione del mondo, perché sappiamo che la lirica come sostituzione metaforica del mondo, cioè la lirica simbolista, è finita. Sentiamo la lacerazione della presenza come finzione, e quindi la lacerazione di confrontarci non più con il reale, ma con quello che, parafrasando Leopardi, potremmo chiamare, "l'artificiale vero", che è dei media ma anche delle cose‑vite‑merci.
Il nostro compito, se c'è n'è uno, è di spostare dalla vita interiore alla vita di relazione il destino della poesia. Per esempio, dire che cos'è una strada oggi, o una fermata del tram. Dire la nostra epoca. Tutti i veri poeti sanno che occorre ritrovare delle figure di senso nelle occasioni quotidiane e fare in modo che queste figure diventino allegoria, che siano loro a fare il discorso, perché tu le hai sentite prima, e loro parlano e riescono ad ampliare il loro linguaggio attraverso la voce della poesia. L'idea che sia venuta meno una concezione unitaria del mondo forse concede oggi alla poesia una chance, che è quella di non supplire all'ideologia, ma di essere un luogo aperto. Un cammino a partire da una grammatica emozionale.
Per quasi tutto il '900 la poesia è stata un determinato sistema di filtro fra sé e la realtà: il simbolo dell'assoluto linguistico. L'essenza della poesia era l'altro discorso che stava davanti al reale.
Una tradizione poetica diversa del '900 ha invece proposto il primato della res sulla parola.

(«la rosa necessaria», n. 3, dicembre 1993, pp. 3-4)

Copertina n. 3



Su, presto, qui, ora, sempre...
Condizione di semplicità assoluta
(Che costa non meno di ogni cosa)
E tutto sarà bene, e
Ogni sorta di cose sarà bene
Quando lingue di fuoco s'incurvino
Nel nodo di fuoco in corona
E il fuoco e la rosa sian uno

T. S. ELIOT


Questi versi di Thomas Stearns Eliot, tratti da Quattro Quartetti, erano la copertina del n. 3 della rivista, la prima ad uscire come supplemento de L'ALTRiTALIA. Il progetto grafico, sia pure non ancora definitivo, si avvale della consulenza di Costanzo Barone e Arturo Sangiuolo.


Questo il sommario del numero:

Editoriale
«La grana dura della parola»
POETI ITALIANI CONTEMPORANEI: GIANNI D'ELIA

Interventi

Poesia come discorso vissuto di Gianni D'Elia

Ricognizioni

Tra invettiva e preghiera: la poesia di G.D'Elia di Nicola Sguera e Luca Rando

Invito alla lettura
Leggendo Notte Privata di Marco Cardinali

Bastian Contrario
«Era già l'ora che volge il disio» di Marlon Dani

Appunti Variabili
Vita e poesia di Rito Martignetti

Speciale FILOSOFIA
Un invito all'esperienza della bellezza di Giovanni Rossetti

Editoriale n. 3



«La grana dura della parola»

«Come la numismatica, come la filatelia [...], la poesia resta un'attività seguita solo da un ristretto numero di cultori. E' ad essi che si deve la fioritura di iniziative tanto sconsiderate e fallimentari quanto preziose e indispensabili: le riviste di poesia.

Mi è capitato di paragonare queste pubblicazioni ora a un continente sommerso (una sorta di Atlantide letteraria), ora a un arcipelago [...], ora a un organismo rizomatico [...], ora alla struttura ramificata delle catacombe ebraico-cristiane [...]. Come per certi pesci primitivi il cui apparato respiratorio funziona solo grazie all'incessante movimento dell'animale, la circolazione dei versi non può arrestarsi, pena l'estinzione della specie. Ciò che consente l'ininterrotta corrente di confronti, scontri, scoperte e polemiche, è appunto questa fittissima rete di periodici a bassa tiratura [...].
E' la carboneria della letteratura, il cuore gratuito, il motore maniaco, vanto di quei redattori-missionari che con i loro sforzi cercano di tutelare uno spazio diverso, destinato a un ascolto lento, attento, pieno, della parola [...].
Il Leviatano mediatico, il grande fratello delle comunicazioni planetarie, ha interstizi, angoli ciechi, doppifondi, pieghe, in cui si può annidare una forma di resistenza alla standardizzazione, forma che è al tempo stesso amore della parola. In un universo che ha ridotto l'informazione a merce il ruolo di queste riviste di poesia consisterà nel ricordare la grana dura e inassimilabile della parola».



Usciamo dalla clandestinità forti di questa dichiarazione d'amore di Valerio Magrelli (apparsa su un foglio di ben altra levatura, "La rivista dei libri" del giugno '93).
Questa rivista nasce dall'incontro di un gruppo di persone accomunate dall'amore per la poesia. L'obiettivo che ci prefiggiamo è quello di avvicinare alla poesia quel pubblico potenziale che se ne sente respinto per una serie di motivi: la difficoltà del linguaggio, il costo spropositato dei libri, la scarsa pubblicità.
Perché una rivista di poesia? La risposta è nelle parole di Magrelli: senza queste iniziative - fallimentari (la poesia è sempre votata allo scacco) e necessarie (la rosa-poesia vive e muore sotto il segno della necessità, anche espressiva) - morirebbe qualcosa di essenziale al nostro essere uomini; essenziale insieme alla politica, all'amore, alla musica, alla pittura, insomma a tutto ciò per cui vale la pena di vivere.
Odora eterna, recita il nostro motto, la rosa sepolta. Si tratta di ridare linfa, di riattivare i processi vitali (che fanno vivere e che danno vita nello stesso tempo) della poesia, di questo fare che non produce, apparentemente, nulla.
Fino ad ora sono usciti tre numeri circolati in maniera avventurosa: ci piace ricordare soprattutto la conferenza di Gianfranco Ravasi su Turoldo e l'intervento di Marco Guzzi
Su questo numero troverete il primo articolo di una serie dedicata alla poesia dei nostri anni (in futuro dedicheremo piccole monografie ad autori come Magrelli, Cucchi, Conte, Zeichen). Oltre alla rubriche fisse ogni numero ospiterà un articolo corposo dedicato alle altre arti o discipline (in questo caso la filosofia).
Parallelamente all'uscita della rivista, continueremo l'attività dell'associazione che porta lo stesso nome: ogni mese ci incontreremo dove avremo uno spazio a disposizione per leggere, a partire dalla poesia, il nostro mondo.
La maggior aspirazione che abbiamo è quella di diventare un luogo di incontro: per questo chiunque lo voglia, potrà scrivere su queste pagine senza restrizioni di alcun tipo.
Mandateci i vostri suggerimenti e le vostre proposte.

(Editoriale, n. 3, dicembre 1993)

sabato 27 settembre 2014

Copertina n. 2





Di cosa parleranno i cinque 
la notte prima dell'esecuzione...

del fatto che la vodka è migliore 
che il vino fa venire il mal di testa 
di ragazze 
di frutta 
della vita

e allora è lecito 
usare in poesia nomi di pastori greci 
tentare di fissare i colori d'un cielo mattutino 

scrivere d'amore 
e anche 
una volta ancora 
con serietà mortale 
offrire al mondo tradito 
una rosa.

Z. HERBERT

* * * 

Il n. 2 della rivista fu l'ultimo stampato in modo artigianale, anche se la forma grafica sia della copertina che dell'interno venne mantenuto con poche varianti fino al n. 11. 

A partire da questo numero, dalla copertina (di cartoncino color paglierino) scomparvero le immagini e decidemmo di lasciare l'intestazione («la rosa necessaria - Rivista di poesia») e una poesia che al suo interno avesse la parola "rosa". Come prima poesia scegliemmo la parte finale de I cinque di Zbigniew Herbert (da Rapporto dalla città assediata).




Questo il sommario del n. 2 della rivista:

Editoriale

Proposte
La donna nella poesia di E. Montale di Nicola Sguera

Speciale Città Spettacolo
Piccolo Circolo Chiuso di Fernando Panarese
Filottete di Luca Rando

Bastian Contrario
P. Salinas: «Domanda estrema» di Marlon Dani

Appunti Variabili
Tempo e poesia di Rito Martignetti

La Poesia
Pensiero e abbandono (M. Heidegger) di Giovanni Rossetti

Editoriale n. 2






Dopo un periodo di parentesi ritorna la rivista La Rosa Necessaria.
Questo periodo di nostra inattività ha visto Benevento impegnata in una serie di rassegne: InChiostro (con la presenza dei poeti Jolanda Insana e Valentino Zeichen), la rassegna organizzata dall'EPT al Teatro Romano (di poesia, da dimenticare la serata con Paola Gasmann e Ugo Pagliai) e la XIV edizione di Città Spettacolo. Quest'ultima è stata una rassegna un po' sotto tono, con poche impennate, e che non ha visto alcun intervento dì poeti e solo pochi "testi poetici". Si può eccettuare. probabilmente, il bellissimo testo di Enzo Moscato che ha dato vita allo spettacolo teatrale prima ed ora al film Rasoi di Martone.

La rivista viene proposta in una nuova veste grafica e contiene al suo interno oltre alle consuete rubriche. un saggio su un aspetto specifico dell'opera di Montale che vuol essere anche un'introduzione generale alla sua poesia, e uno speciale su Città Spettacolo. Il nostro intento è quello di creare di volta in volta degli spazi dedicati ad altre attività creative (cinema, musica, ecc.).

Per i prossimi mesi stiamo lavorando ad un progetto di ricognizione sulla nuova poesia italiana che ha visto un momento di grossa emergenza con il convegno La parola ritrovata, tenutosi a Roma il 22 e 23 settembre.


(Editoriale, n. 2, settembre 1993)

mercoledì 24 settembre 2014

Guzzi - Dalla frattura fonda





L'intervento di Marco Guzzi riportato nel n. 1 della rivista era la trascrizione dell'incontro tenuto nell'ambito degli incontri di poesia della Rosa Necessaria alla Sala del reduce di Benevento il 3 aprile 1993.



DALLA FRATTURA FONDA
di Marco Guzzi


«Un luogo nuovo della poesia...»

Nello statuto della vostra Associazione è scritto che «bisogna contaminare la poesia con il politico, il sociale, il religioso». La grande linea poetica del nostro secolo, il cui capostipite possiamo considerare Rimbaud, si è mossa decisamente in questo senso. René Char, una delle voci più significative del '900, parlando di Rimbaud in un saggio del 1956 scriveva: «Con Rimbaud la poesia cessa di essere un genere letterario ed una competizione letteraria». Questa realtà, che i poeti del '900 hanno vissuto innanzitutto sulla pelle, purtroppo è andata di pari passo con una continuazione della poesia come genere letterario. Tutto il secolo può essere visto come una via parallela, o meglio divaricante, tra una esperienza poetica che cerca un nuovo luogo per essere nel mondo e l'incasellamento del fare poetico ancora all'interno della letteratura, intesa in un certo modo già a partire dalla Poetica di Aristotele: alla letteratura è attribuito il compito di cantare il "verosimile" non il "vero". Il vero, la verità è delegata ad altre ricerche: per Aristotele alla metafisica, cioè all'indagine razionale sull'Essere, per noi alla scienza. La poesia nella storia dell'Occidente non ha un luogo coniugato con la. verità. Ancora noi abbiamo modi di dire come: «E' un'immagine poetica!», intendendo la sua arbitrarietà. Poetico nella nostra civiltà è ciò che è lontano dal vero, una sorta di ornamento della verità. Basti vedere il proemio della Gerusalemme Liberata del Tasso. La grande poesia a partire dal primo Romanticismo ha capovolto questa idea: ha preteso per il dire poetico un contatto con la verità alla sua scaturigine, ha preteso in maniera ambiziosa e pericolosa che all'uomo sia concesso di aderire alla verità nel suo sgorgare. All'uomo non è dato di stare in un mondo già bello e fatto che può soltanto indagare scientificamente, scoprendone le leggi già date, ma all'uomo è dato di vivere in intimità con il mistero del reale nel suo continuo farsi, nel suo continuo rivelarsi. Ecco perché la vera poesia è la testimonianza più alta della libertà dell'uomo. L'uomo non è sottoposto nemmeno al mondo come struttura bloccata. Il mondo è un «esistenziale», dice Heidegger, cioè la mondità è collegata al mio stare nel mondo e si trasforma col mio stare nel mondo e questo stare nel mondo è linguistico originariamente, per cui la ricerca poetica originaria collabora misteriosamente ma anche manifestamente al farsi e al rigenerarsi continuo della realtà del mondo.
Questa esperienza poetica non ha ancora un luogo sociale. I poeti che hanno avuto questa percezione della poesia hanno vissuto una frattura fonda rispetto alla struttura del mondo letterario in cui venivano inseriti. E non avevano né la forza né gli strumenti per creare un luogo nuovo in cui questa esperienza potesse diventare anche, in qualche modo, comunitaria, comunicantesi in un luogo che non fosse la poesia come genere letterario con tutto ciò che esso comporta: pubblico selezionato, microstrutture di potere mummificate. Forse, questa è la mia speranza, oggi, per una serie di metamorfosi, di crolli, di messa in discussione della stessa struttura concettuale, della universalità e assolutezza della scienza come indagine del vero, per la autocritica della filosofia, per la autocritica delle spiritualità storiche che sono affamate tutte di una rigenerazione linguistica, di una linfa poetica in grado di ri-animare l'Annuncio - qualunque esso sia - . Per tutti questi motivi il Poetico può trovare una centralità, per quanto iniziale e modesta.
Il mio primo libro di poesie si chiama II Giorno e la mia ricerca si inserisce nella percezione di un trapasso traumatico di una fine e di un inizio. Non credo che questa sia una originalità (l'originalità d'altronde è una categoria della poesia come genere letterario). Scopriremo altre categorie: scopriremo ciò che unisce le grandi esperienze poetiche. Io credo che uno degli elementi fondanti di questa costanza è proprio la percezione di una fine e di un inizio, presente in Holderlin come in Rimbaud, in Baudelaire come in Dylan Thomas, in Celan come in Char, in TrakI come nel migliore ermetismo italiano. Nell'inno L'Istro Holderlin grida la sua attesa:

«Vieni ora, fuoco! 
Noi siamo ansiosi 
di vedere il giorno»

Questo «giorno» è l'istante continuo in cui all'uomo è dato di aderire alla fonte della realtà e di se stesso, di combaciare con questa sorgente. 
Vorrei accompagnare il mio discorso alla poesia. E nell'esercizio di una oscillazione del linguaggio che potrà attuarsi anche una trasformazione delle forme, anche delle forme dello stare insieme:

Comincerò daccapo come il grano 
ho tutto il tempo per gli ultimi saluti 
finché mi scappi, e ridi 
e ridi e ridi e ridi, 
assottigliandomi lo sguardo che ti oscura.

Azzardo estremo, estremo nascondino: 
tana per tutti, e via 
fare la conta ancora per bendarsi 
e rinnovare il gioco senza fine.

Ti prenderò, lo so, nello sconcerto 
strabilierò l'occhiata che mi lanci 
e vincerò la gara dileguando 
oltre quel tronco che tiene il posto mio.

(Il Giorno, p.36)

Pietà quel soffio 
che sfiora l'altopiano, e lo solleva 
appena, sulle punte: piana deserta 
offre le labbra a un bacio 
come alla fine 
del segno della croce.

Da quale serpe stilli l'acqua chiara, 
da quali traumi innesti la mimosa 
nei marmi mutilati sui bastioni, 
quale vergogna o colpa innominata 
ci tiene desti?

Sono il muro del pianto che riversi 
come un'ondata 
sui volti. Sono finito 
e duro 
nella pietà: il tuo sollievo 
mi sfuma indenne 
lasciando solo un'orma 
sulla neve.

(Il Giorno, p.37)

Chi mi fa salvo è presso la parola

Sta nel respiro d'angeli che accende 
L'Iride beato degli scalzi 
Frati che ondeggiando 
Calpestano nell'uva il loro sangue 
Per un vin santo 
Che sappia di mare

Chi mi colpisce è il verbo 
Essere, è l'asse 
Dell'illetterato, è l'attimo 
Dell'inconcludente

La donna che lo sa non fa prodezze 
La sua virtù è il vuoto 
Tremore d'una bocca 
Perdutamente aperta al bacio

(Teatro Cattolico, p.136)


«La poesia, spiritualità dell'ascolto...»

E' come se (uomo nuovo che si fa strada in questo tempo fosse un essere dell'ascolto. Questo linguaggio che forse ci ridirà, se sapremo disporci, richiede innanzitutto una sorta di attitudine passiva di ascolto. Non si tratta di fare prodezze, si tratta di concentrare quanto più del nostro essere siamo in grado di offrire in questo punto di ricezione. Quando Rimbaud dice: « Io è un altro» compie e rivela un atto spirituale fondante di questo nuovo inizio che si fa strada. Paradossalmente questo nuovo io è come se fosse un essere sempre in dialogo. Molti testi della mia poesia sono a due voci, perché io ho sperimentato nella scrittura e nella revisione uno sdoppiamento della voce. Yves Bonnefoy nella sua prima raccolta, Del movimento e dell'immobilità di Douve, ha molti testi come: Una voce, Un'altra voce. E' come se dall'ascolto emergessero dal teatro universale della nostra anima altre voci. Quando mettiamo a tacere quel monologante che il nostro io, che crede di essere una identità ben definita - e non lo è -, quando ci rendiamo conto che la nostra identità è una delle parti del nostro essere e iniziamo ad ascoltare anche le altre, emergono altre voci. Esse possono entrare in dialogo con il nostro io che si sia tolto dal centro egemonico. Non è questo lo stesso problema del nostro mondo? Perché, per esempio, sono brutte le nostre città? Perché sono fatte da un io egemonico, razionalizzato e calcolante, il quale crede che l'ordine sia il calcolo. L'ordine non è il calcolo. Il più delle volte se ci affidiamo solo alla funzione calcolante del pensiero generiamo disordine, nella sua forma ultima che è la corruzione del corpo morto. Quando un corpo muore ritorna nel caos, gli elementi si disgregano e si ha la corruzione. La corruzione morale o politica non è la causa dei guasti del nostro mondo ma è l'ultimo effetto di un trionfo della morte che si è attuato ben prima. La corruzione è una funzione della morte. Il problema allora non è "morale". Oggi in Italia. tutti sembrano diventati moralisti, dai vescovi agli ex-comunisti. Chissà come è pensabile rinnovare completamente una società attraverso la morale... Sappiamo per lo meno da un secolo e mezzo che la morale cambia. Quando ci si appella alla morale, a quale ci si riferisce? Il funzionario asburgico che onestamente applicava la legge in un sistema di ingiustizia globale era morale. Ma il suo essere morale e onesto in quella struttura era più dannoso di un comportamento disonesto. Allora che cos'è la morale? Come possiamo credere che la morale sia fonte di rinnovamento? Chi vogliono ingannare? L'etica è stata sempre l'etica dei più forti, è stata sempre la leva con cui i dominatori hanno imposto attraverso i sensi di colpa le loro ingiustizie come forme di morale suprema. Hanno ammazzato anche Cristo e Socrate per ragioni morali...
La poesia non ha niente ha che vedere con tutto questo. La poesia si muove in un territorio molto precedente a qualunque scelta morale: si muove in un terreno pre-morale, pre-politico, pre-storico. In quella falda della storia che è il suo continuo principio. Nessuna legge morale può essere anteposta alla prima parola poetica perché la prima parola poetica si propone come il luogo in cui continuamente si rigenera la legge e in cui si modifica l'orizzonte stesso del nostro essere, all'interno del quale poi ci si organizza con leggi - funzioni successive-. Ecco spiegata la critica al moralismo di molta poesia novecentesca.
«Il poeta nasce attraverso il poema che egli crea. E' posteriore al mondo che ha suscitato» (Sereni parlando di Char). Che vuol dire? Che se noi aderiamo a questa genesi continua del mondo il nostro io viene dopo la nostra rigenerazione. Questo non è solo un problema del fare poetico in senso stretto ma è il paradigma di una possibile nuova umanità che non avrà più la propria identità come un possesso. Il problema, infatti, che attraversa il nostro mondo è un problema di identità: chi sono io? Le identità stanno franando - perfino quelle più ovvie - . Credere di poter trovare ancoramento su identità del passato è illusorio e inutile. Lo vediamo in Jugoslavia. La terribile guerra fratricida per noi incomprensibile è il risultato di una regressione a forme di identità forti del passato. L'uomo che non sa più chi è regredisce a identità di secoli scorsi: io sono serbo, io sono croato...
Tutto questo accade perché non vogliamo affrontare la nuova identità, il modo nuovo di essere io, che è un attendersi da altri, un attendere la Rivelazione continua e viatica, peregrinante del mio essere. La poesia ci dice che se noi taciamo può emergere quella parola che ci può dire chi siamo, a patto che smettiamo di definirci in maniera schematica. La poesia allora è una spiritualità dell'ascolto. Ma mettere a tacere questo io egocentrico in un certo senso significa morire continuamente. Solo che questa morte è iniziatica, dà inizio, crea una apertura. Quando Heidegger dice che la decisione anticipatrice della morte è il modo attraverso cui l'uomo può aprirsi all'attimo del più proprio destino e quindi al continuo avvento dell'Essere, ci dice una cosa simile a Bonnefoy: «Dovrai per vivere varcare la morte / la più pura presenza è un sangue versato».

Abbrevierai la grandine che stralcia 
l'edera avvinta a un residuo di vite?
cade sempre in un ritegno 
lontano dalle creste 
del suo fuoco.
Aria di festa: 
la testa, tutta immersa
beve la fresca 
aurora.

(Teatro Cattolico, p.79)

Saltare il guado e non immergersi 
mai più; poi riesumare
gli ossi, e tra le sabbie

Nel cuore in pena 
i mari sono colpi.

Amore e morte giocano alla pari.

Eppure, 
le piogge hanno memoria, sento 
quel vento che ne annuncia la caduta.

Morendo, sì, morendo 
berrò la goccia che mi riassume, 
accorrerò alla scadenza per smentirla 
annuvolandomi per sempre.

(Il Giorno, p.40)

Essere un poeta o un morto 
è l'ineguale clima delle foci.

Sotto il calo di nuvole latenti 
la vita si congiunge all'altra riva.

Sono bagnato. E' sangue. Mi traspira 
un eritema ovunque. E brucia. 
Sono tarato. Sono calato 
in mare, un peso morto, e giù 
perdono! 
è l'ultima parola che mi sfugge 
dalla bocca che un'onda fa svanire.

(Teatro Cattolico, p.21)

Niente di luglio, niente sulla via. 
Il capo nella polvere respira 
a stento; inviso al cielo 
il debole demonio che non sa 
traccia le svolte, e fila dritto al cuore. 
Perché una 
sola è la corrente, e nello scolo 
passa indifferita. E queste vene 
di marmo sono fiori 
impressi sulle lastre a illimpidire 
scrosci di memoria.

(Teatro Cattolico, p.26)

Se tolgo le figure resto me 
con la ferita aperta 
antelucana, 
e il nome balbuziente 
che mi gira.

Se mi sfiguro sono 
l'indocile momento della prima
levata, del cesareo 
parto di sangue, dell'imbrattato 
avvento: gloria solare e feci 
nel presepe, come una curva 
stoccata che uccide.

(Teatro Cattolico, p. 117)


«La morte iniziatica»

La morte reiterata, che è una sorta di genuflessione («Quando io raggiungo l'Ineffabile svegliandomi / io sono in ginocchio», scrive Char), è un Inizio continuo con il quale dobbiamo prendere contatto. L'Inizio c'è ma noi non ne abbiamo consapevolezza: dobbiamo rivoltarci (questo è uno dei sensi della Svolta come movimento) e capire che c'è un principio eternamente attuale con cui si può dialogare. Esso ha una funzione poetica e quindi salvifica solo se noi gli lasciamo la spazio del dialogo.
Il nostro tempo è periodo di grosse crisi psicologiche. La scissione delle identità è la tragedia del nostro tempo. La sofferenza psicologica che c'è nel nostro mondo può essere paragonata ad un'epidemia. Ciò che mi ha sempre colpito è il grande dolore inespresso della gente. La poesia, entrando in un dialogo serio con la, psicologia del profondo, potrebbe animare una comprensione del problema delle crisi delle identità e delle sintomatologie nevrotiche. Molti psicoanalisti, soprattutto di formazione junghiana, utilizzano la parola poetica in questo senso, lasciando che la parola poetica emerga dall' "altro" (scrivere facendo emergere l'emozione, senza pensare troppo ai contenuti), insegnando a portare a galla tramite la scrittura, quella che Jung chiamava la «immaginazione attiva», ovvero lasciando emergere il fuoco di immagini e di emozioni che altrimenti avrebbero sintomi fisici o psichici.
Questa "atletica iniziatica", la fedeltà all'eterna iniziativa della parola in atto, è in atto anche ora e per ciascuno di noi. Questa "atletica" è faticosa, è penosa. Ecco, allora, il segno di sofferenza che accompagna la grande esperienza poetica del nostro secolo. Quando Char invita a tornare continuamente all'erosione, «il dolore piuttosto che la perfezione», ci dice qualcosa di profondamente sperimentabile, perché disporsi all'ascolto, mettersi la spina (se utilizziamo la metafora dell'elettricità) fa male. Il contatto con l'Inizio è come un'onda elettrica molto più forte della nostra tensione abituale. Perciò i problemi psichici di molti grandi poeti: alcuni fanno cortocircuito. Bisogna progressivamente imparare a sopportare questa tensione.

Signore delle rondini e dei voli 
ah quanta pena! 
quanta saggezza estrema è la bonaccia 
il fermo delle nubi che non scrolla 
mai le radici.

Poi tramontana. Sbattono le porte.

La testa mi fa male per la luce 
fissa e per la presa 
elettrica dei tuoni.

Ora m'incalza 
ovunque.
Ossessionata 
faccia 
maschera il mio viso, 
appena un dio
mi nomina
scompaio.

(Teatro Cattolico, p.9)

«Il linguaggio in cui parla l'origine è essenzialmente profetico. Esso annuncia in quanto dà inizio» (Blanchot).
La profezia è del presente. Il linguaggio poetico, lasciando che il presente si dica, manifesta i segni che da questo presente si prolungheranno. Il presente nel suo essere invisibile contiene già in sé l'avvenire. L'avvenire è un infinito presente, a-venire. Così finire e iniziare sono due infiniti presenti. Sta a noi attraverso l'atletica iniziatica essere sempre "all'inizio" o essere sempre "alla fine": nel finire, nel mortale o nell'iniziale-iniziatico. «Non ti lamentare di vivere più vicino alla morte dei mortali» (Char).
Bisogna che si inizi a fare un lavoro critico e discriminante. Ci sono lavori diversi che ancora vengono catalogati sotto lo stessa categoria di poesia. E sono diversi come mondi diversi. Questa traiettoria che io vi delineo, per quanto anomala, è una traiettoria che alcuni poeti hanno vissuto e che cosa ha che vedere con altre dimensioni poetiche, rispettabilissime, ma che appartengono ad un altro eone? Il fatto che esista una poesia meta-storica è un'idea moderna. Ha una sua storia ed ha, alla base, un'idea nichilistica, perché appiattisce tutto. Che rapporto c'è tra Leopardi ed Isaia? Possiamo analizzare con gli strumenti della critica stilistica i due autori e fare un bel saggio vano sugli stili letterari della Bibbia. Ma è giusto analizzare la Bibbia con la categoria degli stili letterari? Allora perché non analizzare Leopardi con l'idea profetica della poesia di Isaia? Che ne resterebbe? Non esiste la "poesia". Il modo in cui una civiltà umana considera la poesia, qualifica la natura di quella civiltà. L'Occidente è la civiltà in cui la poesia non ha luogo. Non faccio un'accusa ma una constatazione. La poesia per noi è un genere letterario. Se leggiamo la Poetica di Aristotele ci rendiamo conto che la sua idea di poesia è identica a quella della maggioranza dei professori di letteratura di oggi. Che cos'è la poesia? Un diletto... Oppure: la poesia è sentimento. Ma sentimento di chi? Nei Saggi sulla composizione nella metà dell'800 E.A.Poe malediceva «l'intossicazione del cuore». La poesia parla del cuore, ma di quello del mondo.
Celan diceva che le sue poesie erano messaggi messi nella bottiglia e lanciati nel mare. La mancanza di comunione è la tragedia del poetico come luogo in cui la nuova umanità cerca di prendere coscienza. Questo vuol dire che noi non facciamo entrare il nuovo uomo in noi, che è l'unico in grado di rispondere alle domande pratiche di questo mondo. Noi non usciremo da questa gabbia, creeremo un manicomio di veleni e ci soffocheremo dentro finquando non avremo la forza di far parlare 1' "altro". I nostri richiami all'etica e alla ragionevolezza serviranno solo a stringere i cappi che ci stanno strangolando. Oggi la tragedia è che non c'è nessuno che lo dica. Dylan Thomas nel 1933 "vedeva" la catastrofe della Seconda Guerra Mondiale mentre erano in atto le celebrazioni inglesi della Prima Guerra Mondiale. Chi ascoltava un giovane di diciannove anni matto o ubriaco? Eliot nel 1922 accusava il mondo di essere una «terra desolata». E l'opinione pubblica invece era piena di ottimismo. E la Chiesa? In chi agiva la spirito profetico? In Pio XI che vedeva in Mussolini l'«uomo della Provvidenza» o in Eliot che vedeva la catastrofe imminente? E così Celan, Trakl... Con una drammaticità aperta al divenire. Non troverete mai in nessun grande poeta - neanche tra i suicidi – la chiusura alla speranza. Nelle ultime poesie scritte prima della morte Celan continua a vedere la nascita perpetua che è nelle cose. Eliot nei Quattro quartetti scriveva: «Nella mia fine è il mio inizio». Apertura. Mistero di una nascita attraverso una consumazione, che diventa una consumazione mistica non solo dell'individuo ma quasi del corpo mistico della terra, in cui ciascuno di noi è correlato alla sua storia personale. Ecco la cristicità che io vedo, una cristicità poetica della grande poesia.

E' una disfatta.
Il pesco 
dà le gemme per un oro 
più umile, di foglie
figlie del terreno.
Il cielo 
leggere il presagio:

«Vengono giorni lenti come afrori 
densi, come vapori, o vertici 
di sonno amareggiato.
Oh grama luce! 
Oh scarsa risonanza della voce! 
Sordo è il millennio. Eppure viene 
il giorno come niente: 
a frotte si rincorrono i bambini.

Un orizzonte lava già lo specchio 
curvo del cielo, lo piega 
sulle schiene mitigate, e l'alluvione 
d'aurora irrorerà 
gli occhi, ruggendo.»

(Teatro Cattolico, p.49)

Ho visto generarsi sulla terra 
l'indesiderato, e sprofondarsi 
da sé, come un capodoglio.

La madre lo nutriva 
vomitando; poi si scrollò 
di dosso quel pattume, e lo spianò 
d'un colpo: fu un'ora amara.

Nella foresta è facile pregare 
i dèmoni ti stanno più vicini 
coi loro dèi.
Ma amalgamare 
è compito divino, all'uomo 
spetta lo scontro.

Ignoro ciò che scrivo; vivo col Dio 
Vivente, vivo col Vivo.

(Teatro Cattolico, p.125)


(«la rosa necessaria», n. 1, maggio 1993, pp. 3-9)

Copertina n. 1





«Da quale fornace e da quale paradiso spuntava Van Gogh? [...] Disegni sublimi! Molto tempo dopo, la mia vita rinchiusa tra le sbarre di tante sventure mi braccava in una natura simile! La riconoscevo e ne tentavo lo scambio al fondo degli occhi di Vincent mentre essi con la loro verità, con i loro fiori recenti, arricchivano i miei, occhi straziati dalla neve che si scioglieva senza più replica. Un cane che mi fu caro scompariva per sempre per indebitarsi di nuovo con la mia voce. La terra non finiva di esitare sul prossimo destino degli uomini».

René Char




Il numero 1 della Rosa Necessaria fu impaginato e stampato su fogli A3 piegati e spillati al centro. Per la copertina (anch'essa in carta) scegliemmo Notte stellata di Vincent Van Gogh, con un commento di René Char (Le vicinanze di Van Gogh).

Questo il sommario del n. 1:

Editoriale La Rosa Necessaria

Incontri
Dalla frattura fonda di Marco Guzzi

Bastian Contrario Naomi Long Madgett, «Mamma perché sono negra?» di Marlon Dani

Invito alla lettura G. Conte, Dialogo del poeta e del messaggero di Cosimo Caputo

Proposte A partire dall'«oblio» di Pina Arfé

Appunti Variabili Immagine e poesia di Rito Martignetti

Teatrotetro Giovanni Testori di Luca Rando

La Poesia G.Ungaretti, Il tempo è muto a cura di Andrea Lanzalone


martedì 23 settembre 2014

Editoriale n. 1





La Rosa Necessaria è un'associazione nata nel dicembre del 1992 a Benevento, dopo circa un anno di sperimentazione privata.

La Rosa Necessaria ha organizzato fino ad ora tre incontri pubblici: con la poetessa Biancamaria Frabotta (Appunti di volo), con il professor Horst Kunkler (L'ermetismo nella parola poetica di Paul Celan), con il poeta Marco Guzzi (Dalla frattura fonda). La direzione in cui si sono mosse le iniziative è quella della contaminazione.

La Rosa Necessaria non è un gruppo militante ma un'aggregazione di culture diverse, il cui denominatore comune è l'amore per la poesia.

La Rosa Necessaria è ora anche una rivista, stampata in maniera artigianale. La rivista non vuole per ora avere originalità di proposta ma capacità di mediazione.
La presenza di molti testi è giustificata dalla consapevolezza che il libro di poesia è oggetto poco frequentato anche dagli acquirenti abituali di libri, per motivi che sarebbe lungo spiegare e per i quali rimandiamo ad un articolo di Franco Brevini apparso recentemente (Un popolo di poeti, "La rivista dei libri", aprile 1993), a cui ci sembra di dover aggiungere solo l'eccessivo costo dei testi di poesia e lo scarso investimento pubblicitario delle case editrici.
Contro questa realtà (un milione di autori di poesia in Italia cui corrisponde un migliaio di lettori, come nota Brevini) c'è la realtà delle letture pubbliche e nelle scuole che riscuotono successo e, recentemente, il clamoroso successo di una puntata speciale sulla poesia di Babele, la trasmissione condotta da Augias su RaiTre, che ha avuto un milione circa di spettatori (vedi La poesia fa audience, "La Repubblica", 30‑3‑1993).
La certezza, dunque, che ci muove è che esista un pubblico sommerso della poesia. Soprattutto a questo pubblico ci rivolgiamo.


(Editoriale, n. 1, maggio 1993)

lunedì 22 settembre 2014

Ravasi - Quando la fede incontro la poesia: David Maria Turoldo




Tra le cose belle del n. 0 de la rosa necessaria, c'era certamente la trascrizione della conferenza di Gianfranco Ravasi su David Maria Turoldo tenuta a Benevento nel febbraio 1993.

QUANDO LA FEDE INCONTRA LA POESIA: DAVID MARIA TUROLDO
di Gianfranco Ravasi

Sono stato uno degli ultimi amici di David Maria Turoldo. La nostra amicizia è nata da un lavoro comune per una nuova traduzione dei Salmi, testo che costituisce il grande respiro orante non soltanto dell'antico Israele e della Chiesa attraverso i secoli, ma anche dell'umanità che non crede [...].
Lo ho conosciuto non tanto come uomo pubblico ma nella sua intimità, soprattutto in quella vicenda che ha lasciato una traccia incandescente nella sua ultima lirica: la malattia che si era insediata dentro il suo corpo, che lui ha voluto vivere con grande intensità, diventando un punto di riferimento per un'enorme folla di sofferenti che vedevano il morire prima come un mostro e poi lentamente come un angelo. La sua è stata una lezione, quando si vedeva anche nel suo organismo il castello dell'uomo, questo palazzo perfetto (Qo, 12) sfaldarsi lentamente e approdare a quella polvere che, apparentemente, sembrerebbe essere l'ultima parola dell'uomo. Il nostro è stato un legame intorno alla Parola di Dio.
Vorrei ricordare, come premessa, tre elementi prima di iniziare.
Padre David ha avuto un amore viscerale per la Scrittura, per la Bibbia. Amava, infatti, il racconto di un pellegrino russo, che iniziava così: «Per grazia di Dio sono uomo e cristiano, per azioni grande peccatore, per vocazione pellegrino della specie più misera, errando di luogo in luogo. I miei beni terrestri sono una bisaccia sul dorso con un po' di pane secco e, nella sacca interna del camiciotto, la Sacra Bibbia, null'altro».
Nell'interno dell'amore per la Parola ha esaltato l'importanza della parola, in un tempo in cui soprattutto le giovani generazioni sono incapaci di usarla. Il nostro linguaggio è corrotto, volgare, ridotto a poche parole. Umberto Eco ha scritto che gli uomini oggi usano non più di ottocento parole. Questa povertà il poeta la combatte e la parola nobile serve a neutralizzare la chiacchiera e la volgarità e il disfacimento del linguaggio. Turoldo amava citare a questo proposito una frase del Nobel Octavio Paz: «Un popolo comincia a corrompersi quando si corrompe la sua sintassi». Un popolo che non conosce più la fragranza della comunicazione diventa lentamente un popolo corrotto in tutti i sensi.
Ritrovare la bellezza, la trasparenza, la luminosità della parola: come scriveva un altro poeta-sacerdote, amato da David, Clemente Rebora: « La Parola zittì chiacchiere mie».
Padre Turoldo ha esaltato anche il silenzio, parte essenziale della poesia. Lo spazio bianco della pagina deve essere riempito da chi legge e deve fare in modo che le parole risuonino come un'eco nell'anima [...]. Egli amava sottolineare che per gli Israeliti il nome di Dio è fatto di quattro consonati che non si dicono, che si tacciono. Il nome di Dio è silenzio, non perché è muto, ma perché è come il color bianco, sintesi di tutti i colori. Il silenzio del nome di Dio è la perfezione di tutte le voci, di tutte le sillabe raccolte nell'armonia di un suono perfetto, che non viene ascoltato.
Se si analizzano tutte le poesie di Turoldo, ci si rende conto che vi si può trovare tutta la Bibbia.
Nell'ultimo libro scritto, Il dramma è Dio, Turoldo si è interrogato in maniera lacerata sul rapporto tra Dio e il nulla nel momento della creazione. Che cos'è la creazione, se non un ritirarsi di Dio? [...] (La creazione è una dramma anche per Dio e questo dramma è ben presto striato dal sangue: Caino, «vivo cadavere» (Ballata di Caino), va per le strade, invocando la morte.)[...].
Entriamo nella poesia più alta di Turoldo, quella contenuta in Mie notti con Qohélet. Il libro è un dialogo con tre libri fondamentali della Bibbia: Qohélet, il Cantico dei Cantici e Giobbe. Padre David è diventato eco, in qualche modo, della altissima poesia di questi libri, perdendo anche quei toni magniloquenti e retorici della poesia precedente. Mario Luzi, infatti, commemorandolo, ha scritto: «Il progressivo ritrarsi della sua eloquenza addosso al nocciolo delle cose e la cosa estrema era per lui la conoscenza di Dio e il suo impenetrabile silenzio, ovvero il mistero del suo linguaggio». [...].
Qohélet è colui che inizia e conclude il suo libro con un parola che è stata male tradotta con "polvere": hével in ebraico significa letteralmente fumo, una goccia di rugiada che il posarsi del sole fa evaporare, significa la scia lasciata dalla carena di una nave nell'acqua. Qohélet scrive frasi sconvolgenti come: «Io ho odiato la vita». Padre David ha voluto intorno a questo autore costruire il libro, scritto in notti piovosissime, quando oramai la sua parabola umana stava concludendosi (morirà, infatti, dopo pochi mesi). Egli vede in Qohélet la «rasura della ragione», una ragione implacabile che taglia tutto, che però mostra, disperando e dubitando, che anche quando si è nel silenzio di Dio, nel vuoto più assoluto, anche in quel momento non possiamo dire che Dio non c'è perché quelle parole sono sotto l'ispirazione divina. Il che vuol dire che anche nel silenzio Dio parla, anche nell'ateo c'è una scintilla della parola di Dio.
Subito dopo Qohélet incontriamo il Cantico dei Cantici, un arazzo multicolore di simboli e fantasie, di un amore soprattutto femminile: «attesa vendetta al libro del nulla» (cioè al libro di Qohélet). Ma questa non è ancora l'ultima parola, perché in qualche modo il libro è percorso ancora dalla paura. Nei cap. 3 e 5 ci sono le due notti in cui l'amato non c'è più e la donna se ne va per la città, diventata improvvisamente oscura, tenebrosa e violenta e alla fine c'è l'apparire della morte. Nello stesso bacio con cui inizia il Cantico Turoldo vede insinuarsi una specie di elemento divoratore.
Il terzo libro è il libro di Giobbe, che non è, come vuole la tradizione, il paziente. Giobbe è paziente all'inizio, poiché l'autore cita una parabola, ma poi dal cap. 3 al 41, prima della conclusione anch'essa interpolata, assistiamo ad un urlo continuo. Turoldo considera questo il libro della fede e dell'incontro mistico. L'incontro con Dio allora non avviene per i terreni primaverili del Cantico. Qohélet era il buio assoluto, Giobbe è il viaggio della fede nello spogliamento continuo per approdare al riconoscimento: «Io ti conoscevo solo per sentito dire:/ ora i miei occhi ti hanno veduto» (41, 5). E questa è la vera conclusione del libro. Gli ultimi versi, infatti («Per questo io ritratto e mi pento/ sopra la polvere e la cenere») sono la citazione che Giobbe fa dell'antica favola. Non interessa più che finisca nella polvere perché ha avuto quello che cercava: non le maschere di depistaggio degli amici teologi, non il gracchiare delle teologie inutili degli amici sani che ripetono le consolazioni. Giobbe, invece, è nell'interno di una ricerca della carne e del sangue. Non ha più un Dio per sentito dire, ma visto con gli occhi. Giobbe alla fine finisce di piangere perché mai Gesù finisce di morire per noi. Dio riesce a dare un sapore a ciò che ha solo il sapore della disperazione.
[...]. Romano il Melode, un monaco che si era ritirato in un convento presso Costantinopoli, praticò una genere già sviluppato nel mondo assiro: i cosiddetti contàchia, omelie in poesia. Si dice che ne abbia scritto più di mille. Turoldo aveva scoperto che questo monaco, sentendo venir meno la sua vita, aveva continuato a cantare ripetutamente la sua morte nelle omelie. Nel libro Opere e giorni del Signore, scritto da me e Turoldo, vi sono le letture di tutto l'anno Liturgico che egli cercava di rendere in maniera poetica, in modo che potessero essere perfino cantate, raccogliendo quell'antica tradizione.
Che cos'ha privilegiato Turoldo della Bibbia? Per prima cosa il rapporto misterioso di Dio con l'uomo, un rapporto che egli sente in maniera perfino tragica, non solo perché Dio e il Nulla si trovano sempre tra di loro ma anche perché Dio assomma in sé tutti i grandi interrogativi che lanciamo verso il cielo: alcuni Egli li dipana, altri li lascia serpeggiare sulla terra. Allora Dio è un dramma per l'uomo quando non risponde. Ecco allora all'interno dei Canti ultimi, quelle liriche bellissime sul silenzio di Dio, sull'assenza. Tema di tutta la grande mistica:

Nel fittissimo buio sento
il tuo sguardo sul cuore
come di falco appollaiato sul nido.
(Nel fittissimo buio sento)

Dio ti guarda senza uno sguardo d'amore, come un falco pronto a scarnificarti. Pensiamo un altro verso: «o miseria/ fiordo della mia speranza/ sola moneta di scambio!» (Mia necessità, vv. 11‑12). La miseria è come il fiordo che incide nella terra con le sue acque gelide [...].
Ancora, nella poesia A stento il Nulla:

No, credere a Pasqua non è
giusta fede:
troppo bello sei a Pasqua!

Fede vera
è al venerdì santo
quando Tu non c'eri
lassù!

Quando non una eco
risponde
al suo alto grido

e a stento il Nulla
dà forma

alla tua assenza.

Il Nulla sembra avvolgere il Cristo. Padre David ha celebrato ripetutamente questa assenza, paradossalmente positiva, di Dio, sin dalle origini della sua poesia («Notte, notte oscura ci fascia/ nera Sindone se tu non accendi/ il tuo lume, Signore» o «Mio Dio, assente e lontano», o ancora «Dio non viene all'appuntamento,/ all'incontro cercato nessuno giunge», «La tua assenza ci desola / ma tu, o Signore, sei bianca/ statua di marmo nella notte»). «E' questa la tua pena d'essere Dio» ha scritto David: paradosso per rappresentare un Dio che è costretto al silenzio per farci sperimentare autenticamente la fede. Ma questa assenza è come la pausa musicale: l'assenza prelude alla presenza, descritta sempre con pudore, perché l'incontro va taciuto, va vissuto.
Il messaggio di speranza di Turoldo si può riassumere con una frase paradossale del filosofo marxista Ernst Bloch, che aveva conosciuto: «Finché c'è religione c'è speranza». La sua poesia che pure affrontava il tema del nulla, del silenzio, dell'assenza di Dio aveva "una lama di luce".
La morte cantata sempre da Turoldo non ha mai avuto una dimensione di disperazione (troviamo frasi come: pranzare con la morte, l'amplesso della morte, assorbire la morte, credere nella morte, invocare la morte, sotto il segno della morte). E poi: «Morte, mia antica quiete / ritorna pure, mio antico amore».
Carlo Bo, amico di lunga data, ha scritto: «Padre David ha avuto da Dio due doni: la fede e la poesia. Dandogli la fede gli ha imposto di cantarla tutti i giorni» (dalla Presentazione a Il grande Male).
Egli ci lascia come eredità anche il desiderio di comprendere quella cosa che noi escludiamo dalla nostra civiltà: la morte. Leggere le sue poesie vuol dire anche pensare per un momento che ognuno di noi ha scritto sulla fronte la data della fine. Questa percezione dà luogo a due reazioni diverse: o alla "pornografia della morte" o alla rimozione. Bisogna scoprire, invece, la dimensione pasquale dell'incontro col mistero del morire.
Una parabola giudaica descrive la morte di Abramo, che un giorno, sotto la tenda, vede arrivare l'Angelo di Dio e capisce che è l'Angelo della Morte che viene per lui. Nell'umano desiderio di allontanare la morte chiede all'Angelo: «Può un amico desiderare la morte di un amico?» (Abramo nella Bibbia è chiamato "l'amico di Dio"). L'Angelo gli domanda: «Può un amato rifiutare l'incontro con l'amata?»; Abramo allora comprende e va.

Capire la morte come un incontro con l'amato, sia pure in una dimensione di paura, è difficile e faticoso. Padre David Maria Turoldo l'ha capito e questa è sicuramente una grande eredità.

da Il grande Male

In memoria del vescovo Romero

In nome di Dio vi prego, vi scongiuro,
vi ordino: non uccidete!
Soldati, gettate le armi...

Chi ti ricorda ancora,
fratello Romero?
Ucciso infinite volte
dal loro piombo e dal nostro silenzio.

Ucciso per tutti gli uccisi;
neppure uomo,
sacerdozio che tutte le vittime
riassumi e consacri.

Ucciso perché fatto popolo:
ucciso perché facevi
«cascare le braccia
ai poveri armati»,
più poveri degli stessi uccisi:
per questo ancora e sempre ucciso.

Romero, tu sarai sempre ucciso,
e mai ci sarà un Etiope
che supplichi qualcuno
ad avere pietà.

Non ci sarà un potente, mai,
che abbia pietà
di queste turbe, Signore?
nessuno che non venga ucciso?

Sarà sempre così, Signore?

David, è scaduto il tempo

Ora il tuo posto
è la lista d'attesa.
Grazia rara è
se ancora qualcuno conservi
(con molte incertezze) memoria
del tuo nome, almeno
il sospetto
che tu sia esistito.


Premono formicai di anonimi
alle stazioni della metropolitana.
Moltitudini che urlano
invocando di salire,
a grappoli.

Tutti sconosciuti l'uno all'altro
ignoto il proprio volto
perfino a te stesso,
e il volto del proprio padre:

anche lui anche lui sbarcato
a forza dal predellino
dell'ultimo tram
nella notte.


da Canti ultimi


E lui che incombe

E lui che incombe
nel centro della mente
in assoluta fissità:
né dire sai
se ombra o luce.


Non un nome non un volto
gli conviene: e il salmista
si strazia e grida
«mostrami il tuo volto,
il tuo volto io cerco, Signore!»

                  Né volto
né immagine
né segno alcuno
nulla: più che il vuoto
                                  un nulla.

Forse un suono
una nota sommessa almeno,
un colore:

                           invece
un oceano nero di nulla.


Avanti di pagare il pedaggio


In questo slancio finale
non cedere, mio cuore,
alle sovrane stanchezze

non sarà certo
lunga l'attesa

e non perdere tempo

e questo mio essere presente
questo darmi ancora
e lasciarmi divorare, dica

con quale umile
e grata
e diuturna
passione,

               vita
io ti amavo e come
ora con la morte
- ultimo dovere -
vorrei sdebitarmi

e pagare lietamente
il pedaggio d'entrata...


Oltre la foresta

Fratello ateo, nobilmente pensoso
alla ricerca di un Dio che io non so darti,
attraversiamo insieme il deserto.

Di deserto in deserto andiamo
oltre la foresta delle fedi
liberi e nudi verso

                            il nudo Essere

                                             e là

dove la Parola muore
abbia fine il nostro cammino.


da Mie notti con Qohelet

Seconda notte 

Piove e la notte è ancora più cupa, Qohelet.
Amico delle verità supreme,
neppure di te sai dire
se una fede e quale
ti illumini oppure ottenebri la mente.

Anche tu di nessuna verità puoi dirti certo,
tale è la rasura delle parole.
Meno ancora Ragione ti giova:
non un bagliore che rischiari
il campo dal dubbio: è legge
che Ragione deve contraddirsi.

E dunque, in cosa credere,
                                            o Qohelet?


Dalet

Ora la terra è imporporata di sangue,
una sposa vestita a nozze.
Il sole si è levato sulla casa di tutti
da quando egli ha finito di piangere
e Gesù, ancora più santo,
mai finito di morire per noi.

Ora nessuna nascita è più senza musica,
nessuna tomba senza lucerna
da quando egli ha detto:
«Io lo vedrò, io stesso: questi
occhi lo vedranno e non altri;
ultimo si ergerà sulla polvere».

Allora rinverdirà ogni carne umiliata
e gli andremo incontro con rami nuovi:

una selva sola, la terra, di mani.

(«la rosa necessaria», n.0, aprile 1993, pp. 3-8)