sabato 10 ottobre 2015

Editoriale n. 8







La funzione della critica

In questi ultimi mesi, non solo sulle riviste specializzate, ma anche sui quotidiani si è sviluppata una discussione sulla funzione odierna della critica letteraria, essendo entrate in crisi quelle metodologie che hanno dominato nel corso degli anni Ottanta (in particolare il decostruzionismo). Ci sentiamo in dovere di entrare nel merito poiché anche noi, in qualche modo, svolgiamo una funzione critica, siamo un piccolo ingranaggio di quell'enorme macchina che si chiama letteratura.
Come sempre la polemica ha riguardato l'eccesso di specialismo nella critica e la necessità di ritrovare un linguaggio accessibile. Ritengo che gli interventi più coraggiosi siano stati quelli di Alfonso Berardinelli e di Giulio Ferroni.
Il primo è autore di un libro (La poesia verso la prosa, Bollati Boringhieri) che ha messo in subbuglio il mondo della poesia italiana per la violenza dei giudizi, nel quale, in sintesi, Berardinelli afferma che la poesia novecentesca si è assolutizzata, perdendo ogni legame con la realtà concreta e perdendo anche la possibilità di essere verificata, valutata (con gli strumenti della grammatica, della retorica, della metrica, della logica, ecc.). Secondo l'autore, che insegna attualmente a Venezia e viene dall'esperienza dei «Quaderni piacentini», la critica può salvarsi solo ritornando alla sua dimensione saggistica (di matrice illuministica) che nel Novecento ha avuto come massimi rappresentanti Edmund Wilson e, in Italia, Giacomo Debenedetti: una scrittura critica che, parlando di letteratura, parli d'altro (non a caso il libro precedente di Berardinelli si intitolava Tra il libro e la vita).
Gli interventi di Giulio Ferroni sono improntati invece ad un grande pessimismo sulla condizione della letteratura nella civiltà tecnologica: «Poeti, critici, artisti di tutte le risme, dovrebbero saper sentire fino in fondo ciò che intorno a loro la parola e la realtà sono diventate, avvertire l'urgenza e la minaccia della fine, l'allontanarsi della presenza della letteratura e della forma scritta dalla vita collettiva (su cui, del resto non sembrano aver ormai nessuna presa non solo i linguaggi più oscuri e formalizzati, ma anche quelli che vogliono essere più "comuni" e "diretti"). Forse diventa sempre più necessario riconoscere la condizione "postuma" della scrittura, il loro trovarsi confrontate alla propria fine: immergersi fino in fondo nel senso del presente per salvare o riscattare, dentro di esso, il passato, più che cercare improbabili strade per il futuro» (Parlando di letteratura «teniamoci tantissimo», «L'Unità» , 31 ottobre 1994).
Dialetticamente cerchiamo però di vedere anche la dimensione positiva che questa esplosione di nuovi codici e linguaggi, questo proliferare di voci che vengono dal basso e che entrano in contatto orizzontalmente grazie alle nuove tecnologie, apre. Non è la "scrittura" ad essere postuma, ma un certo tipo di "scrittura" che ha dominato per secoli (o millenni) la nostra civiltà. Tra breve una nuova massa di scrittori si scoprirà attraverso le reti telematiche, producendo milioni di libri che voleranno nell'etere da continente a continente. Allora appare quanto mai necessario dotarsi di strumenti interpretativi per sapere valutare i messaggi, disporli in una personale (non più "oggettiva") gerarchia dei valori. Come è sempre accaduto, l'accesso a nuove forme di espressione di nuovi soggetti arricchirà la letteratura, ma diventerà sempre più difficile valutare, selezionare. Qui diventa fondamentale l'esperienza della critica letteraria, di una critica che insegni soprattutto a decifrare le stratificazioni di un testo, che dia strumenti di lettura che poi ognuno userà a proprio piacimento.
I detentori del sapere sono restii a perdere il loro privilegio da che mondo e mondo.
Per una volta cerchiamo di entrare in un nuovo universo della parola senza aggrapparci al passato, non rimpiangendo i canoni degli autori e le gerarchie prestabilite.


Nicola Sguera

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