lunedì 22 settembre 2014

Ravasi - Quando la fede incontro la poesia: David Maria Turoldo




Tra le cose belle del n. 0 de la rosa necessaria, c'era certamente la trascrizione della conferenza di Gianfranco Ravasi su David Maria Turoldo tenuta a Benevento nel febbraio 1993.

QUANDO LA FEDE INCONTRA LA POESIA: DAVID MARIA TUROLDO
di Gianfranco Ravasi

Sono stato uno degli ultimi amici di David Maria Turoldo. La nostra amicizia è nata da un lavoro comune per una nuova traduzione dei Salmi, testo che costituisce il grande respiro orante non soltanto dell'antico Israele e della Chiesa attraverso i secoli, ma anche dell'umanità che non crede [...].
Lo ho conosciuto non tanto come uomo pubblico ma nella sua intimità, soprattutto in quella vicenda che ha lasciato una traccia incandescente nella sua ultima lirica: la malattia che si era insediata dentro il suo corpo, che lui ha voluto vivere con grande intensità, diventando un punto di riferimento per un'enorme folla di sofferenti che vedevano il morire prima come un mostro e poi lentamente come un angelo. La sua è stata una lezione, quando si vedeva anche nel suo organismo il castello dell'uomo, questo palazzo perfetto (Qo, 12) sfaldarsi lentamente e approdare a quella polvere che, apparentemente, sembrerebbe essere l'ultima parola dell'uomo. Il nostro è stato un legame intorno alla Parola di Dio.
Vorrei ricordare, come premessa, tre elementi prima di iniziare.
Padre David ha avuto un amore viscerale per la Scrittura, per la Bibbia. Amava, infatti, il racconto di un pellegrino russo, che iniziava così: «Per grazia di Dio sono uomo e cristiano, per azioni grande peccatore, per vocazione pellegrino della specie più misera, errando di luogo in luogo. I miei beni terrestri sono una bisaccia sul dorso con un po' di pane secco e, nella sacca interna del camiciotto, la Sacra Bibbia, null'altro».
Nell'interno dell'amore per la Parola ha esaltato l'importanza della parola, in un tempo in cui soprattutto le giovani generazioni sono incapaci di usarla. Il nostro linguaggio è corrotto, volgare, ridotto a poche parole. Umberto Eco ha scritto che gli uomini oggi usano non più di ottocento parole. Questa povertà il poeta la combatte e la parola nobile serve a neutralizzare la chiacchiera e la volgarità e il disfacimento del linguaggio. Turoldo amava citare a questo proposito una frase del Nobel Octavio Paz: «Un popolo comincia a corrompersi quando si corrompe la sua sintassi». Un popolo che non conosce più la fragranza della comunicazione diventa lentamente un popolo corrotto in tutti i sensi.
Ritrovare la bellezza, la trasparenza, la luminosità della parola: come scriveva un altro poeta-sacerdote, amato da David, Clemente Rebora: « La Parola zittì chiacchiere mie».
Padre Turoldo ha esaltato anche il silenzio, parte essenziale della poesia. Lo spazio bianco della pagina deve essere riempito da chi legge e deve fare in modo che le parole risuonino come un'eco nell'anima [...]. Egli amava sottolineare che per gli Israeliti il nome di Dio è fatto di quattro consonati che non si dicono, che si tacciono. Il nome di Dio è silenzio, non perché è muto, ma perché è come il color bianco, sintesi di tutti i colori. Il silenzio del nome di Dio è la perfezione di tutte le voci, di tutte le sillabe raccolte nell'armonia di un suono perfetto, che non viene ascoltato.
Se si analizzano tutte le poesie di Turoldo, ci si rende conto che vi si può trovare tutta la Bibbia.
Nell'ultimo libro scritto, Il dramma è Dio, Turoldo si è interrogato in maniera lacerata sul rapporto tra Dio e il nulla nel momento della creazione. Che cos'è la creazione, se non un ritirarsi di Dio? [...] (La creazione è una dramma anche per Dio e questo dramma è ben presto striato dal sangue: Caino, «vivo cadavere» (Ballata di Caino), va per le strade, invocando la morte.)[...].
Entriamo nella poesia più alta di Turoldo, quella contenuta in Mie notti con Qohélet. Il libro è un dialogo con tre libri fondamentali della Bibbia: Qohélet, il Cantico dei Cantici e Giobbe. Padre David è diventato eco, in qualche modo, della altissima poesia di questi libri, perdendo anche quei toni magniloquenti e retorici della poesia precedente. Mario Luzi, infatti, commemorandolo, ha scritto: «Il progressivo ritrarsi della sua eloquenza addosso al nocciolo delle cose e la cosa estrema era per lui la conoscenza di Dio e il suo impenetrabile silenzio, ovvero il mistero del suo linguaggio». [...].
Qohélet è colui che inizia e conclude il suo libro con un parola che è stata male tradotta con "polvere": hével in ebraico significa letteralmente fumo, una goccia di rugiada che il posarsi del sole fa evaporare, significa la scia lasciata dalla carena di una nave nell'acqua. Qohélet scrive frasi sconvolgenti come: «Io ho odiato la vita». Padre David ha voluto intorno a questo autore costruire il libro, scritto in notti piovosissime, quando oramai la sua parabola umana stava concludendosi (morirà, infatti, dopo pochi mesi). Egli vede in Qohélet la «rasura della ragione», una ragione implacabile che taglia tutto, che però mostra, disperando e dubitando, che anche quando si è nel silenzio di Dio, nel vuoto più assoluto, anche in quel momento non possiamo dire che Dio non c'è perché quelle parole sono sotto l'ispirazione divina. Il che vuol dire che anche nel silenzio Dio parla, anche nell'ateo c'è una scintilla della parola di Dio.
Subito dopo Qohélet incontriamo il Cantico dei Cantici, un arazzo multicolore di simboli e fantasie, di un amore soprattutto femminile: «attesa vendetta al libro del nulla» (cioè al libro di Qohélet). Ma questa non è ancora l'ultima parola, perché in qualche modo il libro è percorso ancora dalla paura. Nei cap. 3 e 5 ci sono le due notti in cui l'amato non c'è più e la donna se ne va per la città, diventata improvvisamente oscura, tenebrosa e violenta e alla fine c'è l'apparire della morte. Nello stesso bacio con cui inizia il Cantico Turoldo vede insinuarsi una specie di elemento divoratore.
Il terzo libro è il libro di Giobbe, che non è, come vuole la tradizione, il paziente. Giobbe è paziente all'inizio, poiché l'autore cita una parabola, ma poi dal cap. 3 al 41, prima della conclusione anch'essa interpolata, assistiamo ad un urlo continuo. Turoldo considera questo il libro della fede e dell'incontro mistico. L'incontro con Dio allora non avviene per i terreni primaverili del Cantico. Qohélet era il buio assoluto, Giobbe è il viaggio della fede nello spogliamento continuo per approdare al riconoscimento: «Io ti conoscevo solo per sentito dire:/ ora i miei occhi ti hanno veduto» (41, 5). E questa è la vera conclusione del libro. Gli ultimi versi, infatti («Per questo io ritratto e mi pento/ sopra la polvere e la cenere») sono la citazione che Giobbe fa dell'antica favola. Non interessa più che finisca nella polvere perché ha avuto quello che cercava: non le maschere di depistaggio degli amici teologi, non il gracchiare delle teologie inutili degli amici sani che ripetono le consolazioni. Giobbe, invece, è nell'interno di una ricerca della carne e del sangue. Non ha più un Dio per sentito dire, ma visto con gli occhi. Giobbe alla fine finisce di piangere perché mai Gesù finisce di morire per noi. Dio riesce a dare un sapore a ciò che ha solo il sapore della disperazione.
[...]. Romano il Melode, un monaco che si era ritirato in un convento presso Costantinopoli, praticò una genere già sviluppato nel mondo assiro: i cosiddetti contàchia, omelie in poesia. Si dice che ne abbia scritto più di mille. Turoldo aveva scoperto che questo monaco, sentendo venir meno la sua vita, aveva continuato a cantare ripetutamente la sua morte nelle omelie. Nel libro Opere e giorni del Signore, scritto da me e Turoldo, vi sono le letture di tutto l'anno Liturgico che egli cercava di rendere in maniera poetica, in modo che potessero essere perfino cantate, raccogliendo quell'antica tradizione.
Che cos'ha privilegiato Turoldo della Bibbia? Per prima cosa il rapporto misterioso di Dio con l'uomo, un rapporto che egli sente in maniera perfino tragica, non solo perché Dio e il Nulla si trovano sempre tra di loro ma anche perché Dio assomma in sé tutti i grandi interrogativi che lanciamo verso il cielo: alcuni Egli li dipana, altri li lascia serpeggiare sulla terra. Allora Dio è un dramma per l'uomo quando non risponde. Ecco allora all'interno dei Canti ultimi, quelle liriche bellissime sul silenzio di Dio, sull'assenza. Tema di tutta la grande mistica:

Nel fittissimo buio sento
il tuo sguardo sul cuore
come di falco appollaiato sul nido.
(Nel fittissimo buio sento)

Dio ti guarda senza uno sguardo d'amore, come un falco pronto a scarnificarti. Pensiamo un altro verso: «o miseria/ fiordo della mia speranza/ sola moneta di scambio!» (Mia necessità, vv. 11‑12). La miseria è come il fiordo che incide nella terra con le sue acque gelide [...].
Ancora, nella poesia A stento il Nulla:

No, credere a Pasqua non è
giusta fede:
troppo bello sei a Pasqua!

Fede vera
è al venerdì santo
quando Tu non c'eri
lassù!

Quando non una eco
risponde
al suo alto grido

e a stento il Nulla
dà forma

alla tua assenza.

Il Nulla sembra avvolgere il Cristo. Padre David ha celebrato ripetutamente questa assenza, paradossalmente positiva, di Dio, sin dalle origini della sua poesia («Notte, notte oscura ci fascia/ nera Sindone se tu non accendi/ il tuo lume, Signore» o «Mio Dio, assente e lontano», o ancora «Dio non viene all'appuntamento,/ all'incontro cercato nessuno giunge», «La tua assenza ci desola / ma tu, o Signore, sei bianca/ statua di marmo nella notte»). «E' questa la tua pena d'essere Dio» ha scritto David: paradosso per rappresentare un Dio che è costretto al silenzio per farci sperimentare autenticamente la fede. Ma questa assenza è come la pausa musicale: l'assenza prelude alla presenza, descritta sempre con pudore, perché l'incontro va taciuto, va vissuto.
Il messaggio di speranza di Turoldo si può riassumere con una frase paradossale del filosofo marxista Ernst Bloch, che aveva conosciuto: «Finché c'è religione c'è speranza». La sua poesia che pure affrontava il tema del nulla, del silenzio, dell'assenza di Dio aveva "una lama di luce".
La morte cantata sempre da Turoldo non ha mai avuto una dimensione di disperazione (troviamo frasi come: pranzare con la morte, l'amplesso della morte, assorbire la morte, credere nella morte, invocare la morte, sotto il segno della morte). E poi: «Morte, mia antica quiete / ritorna pure, mio antico amore».
Carlo Bo, amico di lunga data, ha scritto: «Padre David ha avuto da Dio due doni: la fede e la poesia. Dandogli la fede gli ha imposto di cantarla tutti i giorni» (dalla Presentazione a Il grande Male).
Egli ci lascia come eredità anche il desiderio di comprendere quella cosa che noi escludiamo dalla nostra civiltà: la morte. Leggere le sue poesie vuol dire anche pensare per un momento che ognuno di noi ha scritto sulla fronte la data della fine. Questa percezione dà luogo a due reazioni diverse: o alla "pornografia della morte" o alla rimozione. Bisogna scoprire, invece, la dimensione pasquale dell'incontro col mistero del morire.
Una parabola giudaica descrive la morte di Abramo, che un giorno, sotto la tenda, vede arrivare l'Angelo di Dio e capisce che è l'Angelo della Morte che viene per lui. Nell'umano desiderio di allontanare la morte chiede all'Angelo: «Può un amico desiderare la morte di un amico?» (Abramo nella Bibbia è chiamato "l'amico di Dio"). L'Angelo gli domanda: «Può un amato rifiutare l'incontro con l'amata?»; Abramo allora comprende e va.

Capire la morte come un incontro con l'amato, sia pure in una dimensione di paura, è difficile e faticoso. Padre David Maria Turoldo l'ha capito e questa è sicuramente una grande eredità.

da Il grande Male

In memoria del vescovo Romero

In nome di Dio vi prego, vi scongiuro,
vi ordino: non uccidete!
Soldati, gettate le armi...

Chi ti ricorda ancora,
fratello Romero?
Ucciso infinite volte
dal loro piombo e dal nostro silenzio.

Ucciso per tutti gli uccisi;
neppure uomo,
sacerdozio che tutte le vittime
riassumi e consacri.

Ucciso perché fatto popolo:
ucciso perché facevi
«cascare le braccia
ai poveri armati»,
più poveri degli stessi uccisi:
per questo ancora e sempre ucciso.

Romero, tu sarai sempre ucciso,
e mai ci sarà un Etiope
che supplichi qualcuno
ad avere pietà.

Non ci sarà un potente, mai,
che abbia pietà
di queste turbe, Signore?
nessuno che non venga ucciso?

Sarà sempre così, Signore?

David, è scaduto il tempo

Ora il tuo posto
è la lista d'attesa.
Grazia rara è
se ancora qualcuno conservi
(con molte incertezze) memoria
del tuo nome, almeno
il sospetto
che tu sia esistito.


Premono formicai di anonimi
alle stazioni della metropolitana.
Moltitudini che urlano
invocando di salire,
a grappoli.

Tutti sconosciuti l'uno all'altro
ignoto il proprio volto
perfino a te stesso,
e il volto del proprio padre:

anche lui anche lui sbarcato
a forza dal predellino
dell'ultimo tram
nella notte.


da Canti ultimi


E lui che incombe

E lui che incombe
nel centro della mente
in assoluta fissità:
né dire sai
se ombra o luce.


Non un nome non un volto
gli conviene: e il salmista
si strazia e grida
«mostrami il tuo volto,
il tuo volto io cerco, Signore!»

                  Né volto
né immagine
né segno alcuno
nulla: più che il vuoto
                                  un nulla.

Forse un suono
una nota sommessa almeno,
un colore:

                           invece
un oceano nero di nulla.


Avanti di pagare il pedaggio


In questo slancio finale
non cedere, mio cuore,
alle sovrane stanchezze

non sarà certo
lunga l'attesa

e non perdere tempo

e questo mio essere presente
questo darmi ancora
e lasciarmi divorare, dica

con quale umile
e grata
e diuturna
passione,

               vita
io ti amavo e come
ora con la morte
- ultimo dovere -
vorrei sdebitarmi

e pagare lietamente
il pedaggio d'entrata...


Oltre la foresta

Fratello ateo, nobilmente pensoso
alla ricerca di un Dio che io non so darti,
attraversiamo insieme il deserto.

Di deserto in deserto andiamo
oltre la foresta delle fedi
liberi e nudi verso

                            il nudo Essere

                                             e là

dove la Parola muore
abbia fine il nostro cammino.


da Mie notti con Qohelet

Seconda notte 

Piove e la notte è ancora più cupa, Qohelet.
Amico delle verità supreme,
neppure di te sai dire
se una fede e quale
ti illumini oppure ottenebri la mente.

Anche tu di nessuna verità puoi dirti certo,
tale è la rasura delle parole.
Meno ancora Ragione ti giova:
non un bagliore che rischiari
il campo dal dubbio: è legge
che Ragione deve contraddirsi.

E dunque, in cosa credere,
                                            o Qohelet?


Dalet

Ora la terra è imporporata di sangue,
una sposa vestita a nozze.
Il sole si è levato sulla casa di tutti
da quando egli ha finito di piangere
e Gesù, ancora più santo,
mai finito di morire per noi.

Ora nessuna nascita è più senza musica,
nessuna tomba senza lucerna
da quando egli ha detto:
«Io lo vedrò, io stesso: questi
occhi lo vedranno e non altri;
ultimo si ergerà sulla polvere».

Allora rinverdirà ogni carne umiliata
e gli andremo incontro con rami nuovi:

una selva sola, la terra, di mani.

(«la rosa necessaria», n.0, aprile 1993, pp. 3-8)

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