mercoledì 24 settembre 2014

Guzzi - Dalla frattura fonda





L'intervento di Marco Guzzi riportato nel n. 1 della rivista era la trascrizione dell'incontro tenuto nell'ambito degli incontri di poesia della Rosa Necessaria alla Sala del reduce di Benevento il 3 aprile 1993.



DALLA FRATTURA FONDA
di Marco Guzzi


«Un luogo nuovo della poesia...»

Nello statuto della vostra Associazione è scritto che «bisogna contaminare la poesia con il politico, il sociale, il religioso». La grande linea poetica del nostro secolo, il cui capostipite possiamo considerare Rimbaud, si è mossa decisamente in questo senso. René Char, una delle voci più significative del '900, parlando di Rimbaud in un saggio del 1956 scriveva: «Con Rimbaud la poesia cessa di essere un genere letterario ed una competizione letteraria». Questa realtà, che i poeti del '900 hanno vissuto innanzitutto sulla pelle, purtroppo è andata di pari passo con una continuazione della poesia come genere letterario. Tutto il secolo può essere visto come una via parallela, o meglio divaricante, tra una esperienza poetica che cerca un nuovo luogo per essere nel mondo e l'incasellamento del fare poetico ancora all'interno della letteratura, intesa in un certo modo già a partire dalla Poetica di Aristotele: alla letteratura è attribuito il compito di cantare il "verosimile" non il "vero". Il vero, la verità è delegata ad altre ricerche: per Aristotele alla metafisica, cioè all'indagine razionale sull'Essere, per noi alla scienza. La poesia nella storia dell'Occidente non ha un luogo coniugato con la. verità. Ancora noi abbiamo modi di dire come: «E' un'immagine poetica!», intendendo la sua arbitrarietà. Poetico nella nostra civiltà è ciò che è lontano dal vero, una sorta di ornamento della verità. Basti vedere il proemio della Gerusalemme Liberata del Tasso. La grande poesia a partire dal primo Romanticismo ha capovolto questa idea: ha preteso per il dire poetico un contatto con la verità alla sua scaturigine, ha preteso in maniera ambiziosa e pericolosa che all'uomo sia concesso di aderire alla verità nel suo sgorgare. All'uomo non è dato di stare in un mondo già bello e fatto che può soltanto indagare scientificamente, scoprendone le leggi già date, ma all'uomo è dato di vivere in intimità con il mistero del reale nel suo continuo farsi, nel suo continuo rivelarsi. Ecco perché la vera poesia è la testimonianza più alta della libertà dell'uomo. L'uomo non è sottoposto nemmeno al mondo come struttura bloccata. Il mondo è un «esistenziale», dice Heidegger, cioè la mondità è collegata al mio stare nel mondo e si trasforma col mio stare nel mondo e questo stare nel mondo è linguistico originariamente, per cui la ricerca poetica originaria collabora misteriosamente ma anche manifestamente al farsi e al rigenerarsi continuo della realtà del mondo.
Questa esperienza poetica non ha ancora un luogo sociale. I poeti che hanno avuto questa percezione della poesia hanno vissuto una frattura fonda rispetto alla struttura del mondo letterario in cui venivano inseriti. E non avevano né la forza né gli strumenti per creare un luogo nuovo in cui questa esperienza potesse diventare anche, in qualche modo, comunitaria, comunicantesi in un luogo che non fosse la poesia come genere letterario con tutto ciò che esso comporta: pubblico selezionato, microstrutture di potere mummificate. Forse, questa è la mia speranza, oggi, per una serie di metamorfosi, di crolli, di messa in discussione della stessa struttura concettuale, della universalità e assolutezza della scienza come indagine del vero, per la autocritica della filosofia, per la autocritica delle spiritualità storiche che sono affamate tutte di una rigenerazione linguistica, di una linfa poetica in grado di ri-animare l'Annuncio - qualunque esso sia - . Per tutti questi motivi il Poetico può trovare una centralità, per quanto iniziale e modesta.
Il mio primo libro di poesie si chiama II Giorno e la mia ricerca si inserisce nella percezione di un trapasso traumatico di una fine e di un inizio. Non credo che questa sia una originalità (l'originalità d'altronde è una categoria della poesia come genere letterario). Scopriremo altre categorie: scopriremo ciò che unisce le grandi esperienze poetiche. Io credo che uno degli elementi fondanti di questa costanza è proprio la percezione di una fine e di un inizio, presente in Holderlin come in Rimbaud, in Baudelaire come in Dylan Thomas, in Celan come in Char, in TrakI come nel migliore ermetismo italiano. Nell'inno L'Istro Holderlin grida la sua attesa:

«Vieni ora, fuoco! 
Noi siamo ansiosi 
di vedere il giorno»

Questo «giorno» è l'istante continuo in cui all'uomo è dato di aderire alla fonte della realtà e di se stesso, di combaciare con questa sorgente. 
Vorrei accompagnare il mio discorso alla poesia. E nell'esercizio di una oscillazione del linguaggio che potrà attuarsi anche una trasformazione delle forme, anche delle forme dello stare insieme:

Comincerò daccapo come il grano 
ho tutto il tempo per gli ultimi saluti 
finché mi scappi, e ridi 
e ridi e ridi e ridi, 
assottigliandomi lo sguardo che ti oscura.

Azzardo estremo, estremo nascondino: 
tana per tutti, e via 
fare la conta ancora per bendarsi 
e rinnovare il gioco senza fine.

Ti prenderò, lo so, nello sconcerto 
strabilierò l'occhiata che mi lanci 
e vincerò la gara dileguando 
oltre quel tronco che tiene il posto mio.

(Il Giorno, p.36)

Pietà quel soffio 
che sfiora l'altopiano, e lo solleva 
appena, sulle punte: piana deserta 
offre le labbra a un bacio 
come alla fine 
del segno della croce.

Da quale serpe stilli l'acqua chiara, 
da quali traumi innesti la mimosa 
nei marmi mutilati sui bastioni, 
quale vergogna o colpa innominata 
ci tiene desti?

Sono il muro del pianto che riversi 
come un'ondata 
sui volti. Sono finito 
e duro 
nella pietà: il tuo sollievo 
mi sfuma indenne 
lasciando solo un'orma 
sulla neve.

(Il Giorno, p.37)

Chi mi fa salvo è presso la parola

Sta nel respiro d'angeli che accende 
L'Iride beato degli scalzi 
Frati che ondeggiando 
Calpestano nell'uva il loro sangue 
Per un vin santo 
Che sappia di mare

Chi mi colpisce è il verbo 
Essere, è l'asse 
Dell'illetterato, è l'attimo 
Dell'inconcludente

La donna che lo sa non fa prodezze 
La sua virtù è il vuoto 
Tremore d'una bocca 
Perdutamente aperta al bacio

(Teatro Cattolico, p.136)


«La poesia, spiritualità dell'ascolto...»

E' come se (uomo nuovo che si fa strada in questo tempo fosse un essere dell'ascolto. Questo linguaggio che forse ci ridirà, se sapremo disporci, richiede innanzitutto una sorta di attitudine passiva di ascolto. Non si tratta di fare prodezze, si tratta di concentrare quanto più del nostro essere siamo in grado di offrire in questo punto di ricezione. Quando Rimbaud dice: « Io è un altro» compie e rivela un atto spirituale fondante di questo nuovo inizio che si fa strada. Paradossalmente questo nuovo io è come se fosse un essere sempre in dialogo. Molti testi della mia poesia sono a due voci, perché io ho sperimentato nella scrittura e nella revisione uno sdoppiamento della voce. Yves Bonnefoy nella sua prima raccolta, Del movimento e dell'immobilità di Douve, ha molti testi come: Una voce, Un'altra voce. E' come se dall'ascolto emergessero dal teatro universale della nostra anima altre voci. Quando mettiamo a tacere quel monologante che il nostro io, che crede di essere una identità ben definita - e non lo è -, quando ci rendiamo conto che la nostra identità è una delle parti del nostro essere e iniziamo ad ascoltare anche le altre, emergono altre voci. Esse possono entrare in dialogo con il nostro io che si sia tolto dal centro egemonico. Non è questo lo stesso problema del nostro mondo? Perché, per esempio, sono brutte le nostre città? Perché sono fatte da un io egemonico, razionalizzato e calcolante, il quale crede che l'ordine sia il calcolo. L'ordine non è il calcolo. Il più delle volte se ci affidiamo solo alla funzione calcolante del pensiero generiamo disordine, nella sua forma ultima che è la corruzione del corpo morto. Quando un corpo muore ritorna nel caos, gli elementi si disgregano e si ha la corruzione. La corruzione morale o politica non è la causa dei guasti del nostro mondo ma è l'ultimo effetto di un trionfo della morte che si è attuato ben prima. La corruzione è una funzione della morte. Il problema allora non è "morale". Oggi in Italia. tutti sembrano diventati moralisti, dai vescovi agli ex-comunisti. Chissà come è pensabile rinnovare completamente una società attraverso la morale... Sappiamo per lo meno da un secolo e mezzo che la morale cambia. Quando ci si appella alla morale, a quale ci si riferisce? Il funzionario asburgico che onestamente applicava la legge in un sistema di ingiustizia globale era morale. Ma il suo essere morale e onesto in quella struttura era più dannoso di un comportamento disonesto. Allora che cos'è la morale? Come possiamo credere che la morale sia fonte di rinnovamento? Chi vogliono ingannare? L'etica è stata sempre l'etica dei più forti, è stata sempre la leva con cui i dominatori hanno imposto attraverso i sensi di colpa le loro ingiustizie come forme di morale suprema. Hanno ammazzato anche Cristo e Socrate per ragioni morali...
La poesia non ha niente ha che vedere con tutto questo. La poesia si muove in un territorio molto precedente a qualunque scelta morale: si muove in un terreno pre-morale, pre-politico, pre-storico. In quella falda della storia che è il suo continuo principio. Nessuna legge morale può essere anteposta alla prima parola poetica perché la prima parola poetica si propone come il luogo in cui continuamente si rigenera la legge e in cui si modifica l'orizzonte stesso del nostro essere, all'interno del quale poi ci si organizza con leggi - funzioni successive-. Ecco spiegata la critica al moralismo di molta poesia novecentesca.
«Il poeta nasce attraverso il poema che egli crea. E' posteriore al mondo che ha suscitato» (Sereni parlando di Char). Che vuol dire? Che se noi aderiamo a questa genesi continua del mondo il nostro io viene dopo la nostra rigenerazione. Questo non è solo un problema del fare poetico in senso stretto ma è il paradigma di una possibile nuova umanità che non avrà più la propria identità come un possesso. Il problema, infatti, che attraversa il nostro mondo è un problema di identità: chi sono io? Le identità stanno franando - perfino quelle più ovvie - . Credere di poter trovare ancoramento su identità del passato è illusorio e inutile. Lo vediamo in Jugoslavia. La terribile guerra fratricida per noi incomprensibile è il risultato di una regressione a forme di identità forti del passato. L'uomo che non sa più chi è regredisce a identità di secoli scorsi: io sono serbo, io sono croato...
Tutto questo accade perché non vogliamo affrontare la nuova identità, il modo nuovo di essere io, che è un attendersi da altri, un attendere la Rivelazione continua e viatica, peregrinante del mio essere. La poesia ci dice che se noi taciamo può emergere quella parola che ci può dire chi siamo, a patto che smettiamo di definirci in maniera schematica. La poesia allora è una spiritualità dell'ascolto. Ma mettere a tacere questo io egocentrico in un certo senso significa morire continuamente. Solo che questa morte è iniziatica, dà inizio, crea una apertura. Quando Heidegger dice che la decisione anticipatrice della morte è il modo attraverso cui l'uomo può aprirsi all'attimo del più proprio destino e quindi al continuo avvento dell'Essere, ci dice una cosa simile a Bonnefoy: «Dovrai per vivere varcare la morte / la più pura presenza è un sangue versato».

Abbrevierai la grandine che stralcia 
l'edera avvinta a un residuo di vite?
cade sempre in un ritegno 
lontano dalle creste 
del suo fuoco.
Aria di festa: 
la testa, tutta immersa
beve la fresca 
aurora.

(Teatro Cattolico, p.79)

Saltare il guado e non immergersi 
mai più; poi riesumare
gli ossi, e tra le sabbie

Nel cuore in pena 
i mari sono colpi.

Amore e morte giocano alla pari.

Eppure, 
le piogge hanno memoria, sento 
quel vento che ne annuncia la caduta.

Morendo, sì, morendo 
berrò la goccia che mi riassume, 
accorrerò alla scadenza per smentirla 
annuvolandomi per sempre.

(Il Giorno, p.40)

Essere un poeta o un morto 
è l'ineguale clima delle foci.

Sotto il calo di nuvole latenti 
la vita si congiunge all'altra riva.

Sono bagnato. E' sangue. Mi traspira 
un eritema ovunque. E brucia. 
Sono tarato. Sono calato 
in mare, un peso morto, e giù 
perdono! 
è l'ultima parola che mi sfugge 
dalla bocca che un'onda fa svanire.

(Teatro Cattolico, p.21)

Niente di luglio, niente sulla via. 
Il capo nella polvere respira 
a stento; inviso al cielo 
il debole demonio che non sa 
traccia le svolte, e fila dritto al cuore. 
Perché una 
sola è la corrente, e nello scolo 
passa indifferita. E queste vene 
di marmo sono fiori 
impressi sulle lastre a illimpidire 
scrosci di memoria.

(Teatro Cattolico, p.26)

Se tolgo le figure resto me 
con la ferita aperta 
antelucana, 
e il nome balbuziente 
che mi gira.

Se mi sfiguro sono 
l'indocile momento della prima
levata, del cesareo 
parto di sangue, dell'imbrattato 
avvento: gloria solare e feci 
nel presepe, come una curva 
stoccata che uccide.

(Teatro Cattolico, p. 117)


«La morte iniziatica»

La morte reiterata, che è una sorta di genuflessione («Quando io raggiungo l'Ineffabile svegliandomi / io sono in ginocchio», scrive Char), è un Inizio continuo con il quale dobbiamo prendere contatto. L'Inizio c'è ma noi non ne abbiamo consapevolezza: dobbiamo rivoltarci (questo è uno dei sensi della Svolta come movimento) e capire che c'è un principio eternamente attuale con cui si può dialogare. Esso ha una funzione poetica e quindi salvifica solo se noi gli lasciamo la spazio del dialogo.
Il nostro tempo è periodo di grosse crisi psicologiche. La scissione delle identità è la tragedia del nostro tempo. La sofferenza psicologica che c'è nel nostro mondo può essere paragonata ad un'epidemia. Ciò che mi ha sempre colpito è il grande dolore inespresso della gente. La poesia, entrando in un dialogo serio con la, psicologia del profondo, potrebbe animare una comprensione del problema delle crisi delle identità e delle sintomatologie nevrotiche. Molti psicoanalisti, soprattutto di formazione junghiana, utilizzano la parola poetica in questo senso, lasciando che la parola poetica emerga dall' "altro" (scrivere facendo emergere l'emozione, senza pensare troppo ai contenuti), insegnando a portare a galla tramite la scrittura, quella che Jung chiamava la «immaginazione attiva», ovvero lasciando emergere il fuoco di immagini e di emozioni che altrimenti avrebbero sintomi fisici o psichici.
Questa "atletica iniziatica", la fedeltà all'eterna iniziativa della parola in atto, è in atto anche ora e per ciascuno di noi. Questa "atletica" è faticosa, è penosa. Ecco, allora, il segno di sofferenza che accompagna la grande esperienza poetica del nostro secolo. Quando Char invita a tornare continuamente all'erosione, «il dolore piuttosto che la perfezione», ci dice qualcosa di profondamente sperimentabile, perché disporsi all'ascolto, mettersi la spina (se utilizziamo la metafora dell'elettricità) fa male. Il contatto con l'Inizio è come un'onda elettrica molto più forte della nostra tensione abituale. Perciò i problemi psichici di molti grandi poeti: alcuni fanno cortocircuito. Bisogna progressivamente imparare a sopportare questa tensione.

Signore delle rondini e dei voli 
ah quanta pena! 
quanta saggezza estrema è la bonaccia 
il fermo delle nubi che non scrolla 
mai le radici.

Poi tramontana. Sbattono le porte.

La testa mi fa male per la luce 
fissa e per la presa 
elettrica dei tuoni.

Ora m'incalza 
ovunque.
Ossessionata 
faccia 
maschera il mio viso, 
appena un dio
mi nomina
scompaio.

(Teatro Cattolico, p.9)

«Il linguaggio in cui parla l'origine è essenzialmente profetico. Esso annuncia in quanto dà inizio» (Blanchot).
La profezia è del presente. Il linguaggio poetico, lasciando che il presente si dica, manifesta i segni che da questo presente si prolungheranno. Il presente nel suo essere invisibile contiene già in sé l'avvenire. L'avvenire è un infinito presente, a-venire. Così finire e iniziare sono due infiniti presenti. Sta a noi attraverso l'atletica iniziatica essere sempre "all'inizio" o essere sempre "alla fine": nel finire, nel mortale o nell'iniziale-iniziatico. «Non ti lamentare di vivere più vicino alla morte dei mortali» (Char).
Bisogna che si inizi a fare un lavoro critico e discriminante. Ci sono lavori diversi che ancora vengono catalogati sotto lo stessa categoria di poesia. E sono diversi come mondi diversi. Questa traiettoria che io vi delineo, per quanto anomala, è una traiettoria che alcuni poeti hanno vissuto e che cosa ha che vedere con altre dimensioni poetiche, rispettabilissime, ma che appartengono ad un altro eone? Il fatto che esista una poesia meta-storica è un'idea moderna. Ha una sua storia ed ha, alla base, un'idea nichilistica, perché appiattisce tutto. Che rapporto c'è tra Leopardi ed Isaia? Possiamo analizzare con gli strumenti della critica stilistica i due autori e fare un bel saggio vano sugli stili letterari della Bibbia. Ma è giusto analizzare la Bibbia con la categoria degli stili letterari? Allora perché non analizzare Leopardi con l'idea profetica della poesia di Isaia? Che ne resterebbe? Non esiste la "poesia". Il modo in cui una civiltà umana considera la poesia, qualifica la natura di quella civiltà. L'Occidente è la civiltà in cui la poesia non ha luogo. Non faccio un'accusa ma una constatazione. La poesia per noi è un genere letterario. Se leggiamo la Poetica di Aristotele ci rendiamo conto che la sua idea di poesia è identica a quella della maggioranza dei professori di letteratura di oggi. Che cos'è la poesia? Un diletto... Oppure: la poesia è sentimento. Ma sentimento di chi? Nei Saggi sulla composizione nella metà dell'800 E.A.Poe malediceva «l'intossicazione del cuore». La poesia parla del cuore, ma di quello del mondo.
Celan diceva che le sue poesie erano messaggi messi nella bottiglia e lanciati nel mare. La mancanza di comunione è la tragedia del poetico come luogo in cui la nuova umanità cerca di prendere coscienza. Questo vuol dire che noi non facciamo entrare il nuovo uomo in noi, che è l'unico in grado di rispondere alle domande pratiche di questo mondo. Noi non usciremo da questa gabbia, creeremo un manicomio di veleni e ci soffocheremo dentro finquando non avremo la forza di far parlare 1' "altro". I nostri richiami all'etica e alla ragionevolezza serviranno solo a stringere i cappi che ci stanno strangolando. Oggi la tragedia è che non c'è nessuno che lo dica. Dylan Thomas nel 1933 "vedeva" la catastrofe della Seconda Guerra Mondiale mentre erano in atto le celebrazioni inglesi della Prima Guerra Mondiale. Chi ascoltava un giovane di diciannove anni matto o ubriaco? Eliot nel 1922 accusava il mondo di essere una «terra desolata». E l'opinione pubblica invece era piena di ottimismo. E la Chiesa? In chi agiva la spirito profetico? In Pio XI che vedeva in Mussolini l'«uomo della Provvidenza» o in Eliot che vedeva la catastrofe imminente? E così Celan, Trakl... Con una drammaticità aperta al divenire. Non troverete mai in nessun grande poeta - neanche tra i suicidi – la chiusura alla speranza. Nelle ultime poesie scritte prima della morte Celan continua a vedere la nascita perpetua che è nelle cose. Eliot nei Quattro quartetti scriveva: «Nella mia fine è il mio inizio». Apertura. Mistero di una nascita attraverso una consumazione, che diventa una consumazione mistica non solo dell'individuo ma quasi del corpo mistico della terra, in cui ciascuno di noi è correlato alla sua storia personale. Ecco la cristicità che io vedo, una cristicità poetica della grande poesia.

E' una disfatta.
Il pesco 
dà le gemme per un oro 
più umile, di foglie
figlie del terreno.
Il cielo 
leggere il presagio:

«Vengono giorni lenti come afrori 
densi, come vapori, o vertici 
di sonno amareggiato.
Oh grama luce! 
Oh scarsa risonanza della voce! 
Sordo è il millennio. Eppure viene 
il giorno come niente: 
a frotte si rincorrono i bambini.

Un orizzonte lava già lo specchio 
curvo del cielo, lo piega 
sulle schiene mitigate, e l'alluvione 
d'aurora irrorerà 
gli occhi, ruggendo.»

(Teatro Cattolico, p.49)

Ho visto generarsi sulla terra 
l'indesiderato, e sprofondarsi 
da sé, come un capodoglio.

La madre lo nutriva 
vomitando; poi si scrollò 
di dosso quel pattume, e lo spianò 
d'un colpo: fu un'ora amara.

Nella foresta è facile pregare 
i dèmoni ti stanno più vicini 
coi loro dèi.
Ma amalgamare 
è compito divino, all'uomo 
spetta lo scontro.

Ignoro ciò che scrivo; vivo col Dio 
Vivente, vivo col Vivo.

(Teatro Cattolico, p.125)


(«la rosa necessaria», n. 1, maggio 1993, pp. 3-9)

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