lunedì 29 settembre 2014

Gianni D'Elia - Poesia come discorso vissuto






Gianni D'Elia 
POESIA COME DISCORSO VISSUTO

Ciò che mi interessa è il racconto del reale nelle sue occasioni vissute. Non mi interessa il mito come mitologia, non mi ritrovo nella poesia che traduce in versi i miti, nella poesia che pratica il sublime per il sublime.
La poesia non c'è perché c'è il poeta: questa è l'idea del neoclassicismo. La domanda per me riguarda più il mitopoietico, che è il contrario di mitologico. Mitopoietico è il ritrovamento di un senso implicito che si mostra nell'urto e nel contatto fra l'esistenza e l'esistente, cioè nell'arsione della realtà storica.
Penso ad una realtà in atto del mito come racconto che le cose ci fanno perché noi si possa chiamarle. Questo è per me il mito.
Forse la realtà è un mito; forse il mito della realtà è quell'altra parte della poesia italiana che ha attraversato il '904, così come c'è stato il mito della parola assoluta. Ed è la linea alternativa a quella ermetica, simbolistica, orfica. Ovvero la linea in cui troviamo insieme ad altri Umberto Saba, Sandro Penna, Giorgio Caproni, Pier Paolo Pasolini e Giovanni Giudici.
Penso ad un mito della realtà da riconoscere nel quotidiano. Li deve ritrovare lo scrittore i miti. Faccio un esempio: in Segreta c'è una poesia (E il ronzare del frigo, intermittente, tremìo) che parla del boiler, che noi abbiamo in tutte le case. Viene fuori un verso che parla di questa fiammella votiva. Tutte le case hanno qualcosa di votivo, non sapendolo. Il boiler è una delle cose più impoetizzabili, eppure è possibile rileggere e anche riconsacrare il quotidiano, con uno sguardo che è, naturalmente, un dono. E' quello sguardo che ti fa pensare ad altre zone del sociale o dell'intimo che potrebbero essere nominate di nuovo, che potrebbero essere fonte di mito, cioè, come in questo caso, di un riconoscimento di qualcosa che dura dai tempi dei Romani: dalla fiamma votiva al boiler.
C'è una battaglia da fare nella poesia italiana, perché noi tutti stiamo ancora dentro al tempo del simbolismo, dell'inconscio come linguaggio. Contro l'ontologia poetica del novecentismo, del misticismo letterario, dì ogni ermetismo basato sull'autonomia del poetico. Bisogna capire che la poesia non vive nella poesia e i libri non nascono dai libri, e che c'è una rapporto tra poesia e vita e tra l'arte e la storia. Se non sento questo in un oggetto, in una figura, in una persona, in una memoria cercando di chiamarlo non scrivo versi, perché penso che la poesia, nell'equilibrio espressivo ‑ che è anche un tentativo di equilibrio morale e psicologico ‑ sia il tentativo di controllare, attraverso uno stile aperto e sottoposto alla lingua, la realtà, accrescendo le facce dell'esperienza.
Semplificando, c'è stata una certa poesia novecentesca che ha detto che ciò che contava era lo stile, un'altra poesia che ha detto che invece ciò che contava era la lingua.
Una poetica dello stile è cosa opposta ad una poetica della lingua.
Io che ho amato molto Pasolini, il discorso di Officina, e il discorso critico di Angelo Romanò (da riscoprire) penso che esista una subordinazione dello stile alla lingua: quindi un pensiero che si faccia strada, una poesia legata all'argomentazione, alla riflessione, alla ricerca di un senso che non è predeterminato, un tentativo di stare dentro le cose e che magari aspiri a diventare concezione del mondo. Questo manca oggi alla poesia. Anche nei poeti bravi ciò che si sente è il "sentimento del tempo", in pochissimi una concezione del mondo. Non penso a qualcosa di astratto, ma ad una visione inverata in oggetti, in cose. L'impoetico della contemporaneità ‑ il seriale, il mercantile ‑ è il tavolo di confronto della lirica. Poeti come Gottfried Benn e Osip Mandel'stam hanno cercato di unire l'antico, il sempre presente e il nuovo.
Siamo di fronte alla svalutazione delle vite e in mezzo alla reificazione delle cose. In un mondo in cui la vita conta sempre meno, ma contano soprattutto le cose, la poesia cerca di ri‑parlare con le cose, riportandole ad un livello di valore, ma per ridare valore alle vite. Questo non può farlo solo la poesia: lo potrebbe fare una certa politica. Ma la poesia deve legarsi alle cose così intese, magari tra preghiera e invettiva (perché questo è oggi il nostro duplice moto e sentimento). Si possono riconsacrare momenti affettivi e anche irrazionali: c'è una dimensione implicitamente religiosa nel rapporto con le cose, dentro un'istanza che per me resta laica, non confessionale.
Mythos significa racconto. Noi viviamo in un tempo che simula la presenza. La poesia è il pensiero, il sentire della presenza. Purtroppo essa vive in uno statuto storico che attraverso i meccanismi della comunicazione simula la presenza. Inesorabilmente succede che non si vive un'autenticità solo perché si vive il momento lirico. Ma tu sai che stai elaborando un pensiero prima sconosciuto a cui ti porta il verso.
L'augurio è quello che tutti siamo diretti verso una concezione del mondo, perché sappiamo che la lirica come sostituzione metaforica del mondo, cioè la lirica simbolista, è finita. Sentiamo la lacerazione della presenza come finzione, e quindi la lacerazione di confrontarci non più con il reale, ma con quello che, parafrasando Leopardi, potremmo chiamare, "l'artificiale vero", che è dei media ma anche delle cose‑vite‑merci.
Il nostro compito, se c'è n'è uno, è di spostare dalla vita interiore alla vita di relazione il destino della poesia. Per esempio, dire che cos'è una strada oggi, o una fermata del tram. Dire la nostra epoca. Tutti i veri poeti sanno che occorre ritrovare delle figure di senso nelle occasioni quotidiane e fare in modo che queste figure diventino allegoria, che siano loro a fare il discorso, perché tu le hai sentite prima, e loro parlano e riescono ad ampliare il loro linguaggio attraverso la voce della poesia. L'idea che sia venuta meno una concezione unitaria del mondo forse concede oggi alla poesia una chance, che è quella di non supplire all'ideologia, ma di essere un luogo aperto. Un cammino a partire da una grammatica emozionale.
Per quasi tutto il '900 la poesia è stata un determinato sistema di filtro fra sé e la realtà: il simbolo dell'assoluto linguistico. L'essenza della poesia era l'altro discorso che stava davanti al reale.
Una tradizione poetica diversa del '900 ha invece proposto il primato della res sulla parola.

(«la rosa necessaria», n. 3, dicembre 1993, pp. 3-4)

Nessun commento:

Posta un commento